Molte componenti nella scelta difficile ma perfettibile delle prove di maturità

di Rita Librandi

L'accademica Rita Librandi commenta le tracce della prima prova dell'esame di maturità 2023.


L’esame di maturità, istituito per la prima volta dal ministro Giovanni Gentile, quest’anno ha compiuto cento anni, ma non è rimasto certamente identico a quello del 1923: molte cose sono mutate lungo questo secolo e molte riforme hanno modificato sia la costituzione delle commissioni sia la tipologia delle prove scritte e orali. Durante la pandemia, peraltro, sono state per due anni abolite le stesse prove scritte, giustamente ripristinate, però, fin dallo scorso anno e ora ritornate ai criteri fissati nel 2017 dalla ministra Valeria Fedeli.

Ogni anno, nei giorni che precedono la prova, si apre, tra gli studenti, sui media e sui canali social, una corsa alle previsioni, puntando sui testi letterari o sui temi che per i motivi più vari sono stati trattati e discussi nelle aule. Ancora più vivace, d’altro canto, diviene il dibattito che segue l’assegnazione delle tracce: è un appuntamento quasi rituale, che trova regolarmente spazio su molti quotidiani e periodici, ospitando, con interviste a docenti, giornalisti e studiosi, sia i consensi sia le polemiche. Le scelte di chi propone le tracce, del resto, non sono per nulla facili e, dovendo tener conto di componenti spesso distanti tra loro, comportano frequenti contraddizioni, che tuttavia si potrebbero, forse, evitare con pochi ma accurati accorgimenti. Non ritorneremo in questa sede su tutte le tipologie di tracce proposte per la prima prova: lasceremo da parte l’ultima e ci soffermeremo sugli aspetti delle altre che hanno suscitato maggiori perplessità, cominciando dai due testi letterari, in poesia e in prosa, tratti dagli scritti di Salvatore Quasimodo e di Alberto Moravia. La loro appartenenza alla prima metà del Novecento, o poco più, ha provocato reazioni opposte: da un lato, il disappunto per non essersi spinti verso anni ancora più recenti e, dall’altro, il timore che nelle classi non si sia avuto il tempo di studiare o approfondire tutti gli autori. Le scelte, tuttavia, tengono sempre conto di quanto compreso nei programmi e, almeno per quanto riguarda Quasimodo, si tratta di uno dei poeti più letti nelle scuole italiane: se anche non si fosse riusciti ad analizzare questo specifico componimento, tratto dalla raccolta La terra impareggiabile del 1958, il tema affrontato dall’autore avrebbe comunque potuto indirizzare l’analisi degli studenti. Quasimodo, infatti, prende spunto dal lancio dello Sputnik del 1957 per ragionare sulle sfide dell’umanità e sul rapporto tra la creazione di Dio e quella realizzata dagli uomini. Era, dunque, assicurata la possibilità di riflettere, anche in chiave interdisciplinare, sul progresso scientifico e sui risvolti delle sempre più numerose innovazioni tecnologiche, senza dimenticare i rinvii a Leopardi richiamato fin dal titolo del componimento. Non era neppure difficile la ricerca delle parole chiave, che ritornano con evidenza nei versi, mentre l’analisi metrica avrebbe potuto giovarsi di quanto già studiato durante l’anno per altre opere poetiche dello stesso periodo. A lasciare perplessi, però, è proprio la scelta di un testo così poco efficace sul piano dell’espressione poetica. Sembra, cioè, evidente che a prevalere sia stato il desiderio di aiutare gli studenti puntando sul contenuto dei versi, una scelta sicuramente legittima, che però mortifica tutto ciò che costituisce l’autentica essenza di un testo poetico. Più inaspettata è apparsa la decisione di proporre un brano degli Indifferenti di Alberto Moravia, non perché più vicino nel tempo (il romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1929), ma perché si tratta di un’opera di solito poco analizzata a scuola. Anche in questo caso, tuttavia, supponiamo che sia stato il contenuto del testo a favorire la scelta, con l’intento di aiutare gli esaminandi a recuperare da altre letture e discussioni svolte in classe la possibilità di rispondere ai diversi quesiti. Il passo selezionato, infatti, mostra come i protagonisti della storia, di solito incapaci di provare sentimenti o passioni, siano assaliti dall’inquietudine solo di fronte alla prospettiva di perdere privilegi e benessere. Nessuna delle domande prende, tuttavia, in considerazione l’innovatività della lingua e dello stile chiaramente debitori nei confronti della scrittura di Luigi Pirandello.

Per quanto riguarda la seconda tipologia di prova, ovvero il testo argomentativo, non ci soffermiamo sugli scritti di Piero Angela e di Oriana Fallaci, dedicati rispettivamente al nesso tra creatività, innovazione tecnologica e ricchezza immateriale e alla valutazione, formulata in relazione alla minaccia nucleare, di una storia decisa da pochi. Ci limitiamo ad apprezzare, con la scelta del primo, la valorizzazione del suo modo rigoroso di stimolare il pensiero tramite una divulgazione scientificamente fondata, e con la seconda la presenza di un testo di mano femminile, anche se non selezionato tra quelli più convincenti della giornalista. Vogliamo invece trattenerci un po’ più a lungo sul brano tratto dal noto libro di Federico Chabod, L’idea di nazione, del 1961. Chabod, storico, politico e partigiano, è noto a tutti gli studiosi per l’impostazione di un metodo storiografico che, basato sull’esame di fonti scientifiche da rendere note ai lettori, è divenuto un modello ancor oggi irrinunciabile. Il brano proposto agli studenti ragiona sul significato autentico di nazione, cui la stessa storia italiana ha contribuito negli anni del Risorgimento, collegandolo non a un angusto nazionalismo ma, con Cavour, alle idee di libertà e indipendenza e, con Mazzini, ai principi di Europa e di umanità. Anche in questo caso non sono mancati pareri contrastanti, divisi tra il doveroso apprezzamento di Chabod e i dubbi sulla proposta di argomentare intorno all’idea di nazione. Sul significato e la storia del termine e del concetto di nazione regna purtroppo, nel nostro paese, molta confusione, soprattutto perché si genera, quasi sempre, una sovrapposizione indebita tra la nazione, il nazionalismo e l’interpretazione di entrambi durante il ventennio fascista. Ciò accade perché, come negli ultimi tempi si sente giustamente ripetere, l’Italia, nonostante la lotta partigiana e la sua ottima Costituzione, non ha mai fatto veramente i conti con il fascismo, con le sue parole, le sue leggi, i suoi crimini. Si ottiene, come curiosa contropartita, il non riuscire a separare i significati e le parole che hanno percorso la nostra storia precedente da quelli che hanno caratterizzato il regime fascista e la sua l’ideologia. Il termine nazione, secondo quanto apprendiamo dal Nuovo etimologico (Cortelazzo e Zolli 1999), entra nella nostra lingua già sul finire del XIII secolo, con il significato di ‘nascita, generazione’, rintracciabile negli scritti di Brunetto Latini; è solo nel secolo successivo, tuttavia, che Giovanni Boccaccio lo adopera per la prima volta con l’accezione di ‘insieme di individui legati da lingua, storia, civiltà, interessi, specie quando coscienti del comune patrimonio’. Con questo stesso significato (peraltro esteso spazialmente da una singola realtà cittadina a un intero Paese) la parola viaggia lungo i secoli, caricandosi di connotazioni particolari durante la Rivoluzione francese e legandosi, durante gli anni del Risorgimento, agli ideali di libertà e fratellanza ricordati da Chabod. Diverso, invece, è il senso di nazionalismo, che, fin dalla sua comparsa in italiano, nella seconda metà dell’Ottocento, è identificato con una ‘dottrina che mira al predominio di una nazione su altre’ o con una ‘esaltazione eccessiva di ciò che appartiene alla nazione’, concetti che saranno a base di tutte le più nefande deformazioni maturate nel corso del XX secolo. Invitare, dunque, gli studenti a riflettere sul valore assunto lungo i secoli dall’idea di nazione è senz’altro positivo, ma sarebbe giusto aggiungere una riflessione su quanto lontano dalla storia d’Italia sia stato il “nazionalismo”, se non per un infelice periodo con il quale sarebbe bene fare serenamente ma definitivamente i conti.


Redazione
27 agosto 2023 - 00:00

Commento di chiusura di Rita Librandi

Chiudo il tema del mese cercando di rispondere, come sempre avviene, alle questioni sollevate da chi è intervenuto sul sito, cominciando dallo studente Vincenzo Masolo e chiudendo con Luca Fiocchi Nicolai, che ha lasciato ben 8 commenti. 

Ringrazio prima di tutto Vincenzo Masolo per la sincerità del suo intervento. Sarebbe stato interessante capire quale tipo di scuola abbia frequentato e che cosa abbia trovato difficile nelle prove d’esame. Voglio dirgli, in ogni caso, che scegliendo la traccia sull’idea di nazione non ha certo scelto la più semplice e che, qualunque sia la sua idea di nazione, è certamente il frutto di letture e discussioni rielaborate nel corso degli anni. La prova, tuttavia, chiedeva di sintetizzare il testo di Chabod e poneva alcune domande alle quali sarebbe stato possibile rispondere solo se il testo fosse stato ben compreso e se si fosse riusciti a collegarlo allo studio della storia. Ci auguriamo, dunque, che sia andato tutto bene.

Il mio ringraziamento va anche a Luca Fiocchi Nicolai per l’indubbio interesse che ha dimostrato sia pure accompagnandolo talvolta con toni un po’ troppo veementi. Cominciamo dall’accostamento, che non aveva intenti comparativi, del ministro Giovanni Gentile, a cui si deve la prima istituzione dell’esame di maturità, alla ministra Valeria Fedeli, responsabile della più recente riforma: è quasi banale osservare che la riforma varata da Gentile era funzionale a una società molto diversa da quella attuale e che ripristinarne oggi il carattere e riproporne, in modo passivo, i programmi non porterebbe né a un’acquisizione sicura e diffusa dei contenuti a quel tempo imposti né a una solida e comune formazione dei nostri giovani. Con ciò non voglio dire che tutte le più recenti riforme dei percorsi scolastici trovino il mio consenso, ma che per ogni intervento sulla formazione è indispensabile ragionare in modo consapevole e competente sui cambiamenti profondi che hanno vissuto e stanno vivendo le società dell’intero mondo occidentale. Del resto, già Orazio, come lei sa, nutriva forti dubbi sulle sollecitazioni del laudator temporis acti se puero. Quanto alla ministra Fedeli, non so perché lei pensi che sia stata chiamata in causa in quanto donna e non, come è avvenuto, solo perché responsabile degli ultimi provvedimenti in materia di esame di Stato. Per ciò che riguarda, invece, Oriana Fallaci, il mio compiacimento a proposito del testo derivava dal fatto che per la prima volta era stato scelto l’articolo di una giornalista: se è vero, infatti, che nessuno è bravo, competente, rigoroso in quanto donna o (me lo consentirà) in quanto uomo, è ugualmente vero che per secoli scritti di grande valore artistico o di particolare efficacia sul piano scientifico, storico e teorico sono stati ignorati o sottovalutati proprio perché composti da donne. Non si tratta di cercare “con il lanternino”, come lei dice, “capolavori femminili negletti”, ma di avere il coraggio di analizzare i testi in modo rigoroso, rapportandoli ai modelli del loro tempo, agli intrecci culturali da cui nascono, senza radicalismi ma ancora una volta considerando i condizionamenti storici. La scrittura porta sempre tracce, soprattutto nel lessico, della storia di chi la produce, ma sono sempre stata convinta che le sue forme, la sua sintassi, la sua organizzazione testuale sono di genere neutro: leggere senza pregiudizi né negativi né positivi riserva, mi creda, straordinarie sorprese e soprattutto crescita di conoscenze. 

Per quanto riguarda le innumerevoli osservazioni che lei fa sulla scuola e sull’insegnamento dell’italiano, non sarà possibile rispondere punto per punto. Comincerò, tuttavia, con il dire che sono pienamente d’accordo con lei e, ovviamente, con il libro dell’amico e collega Coluccia, sul fatto che gli esiti così spesso negativi delle prove OCSE PISA e Invalsi segnalano un problema gravissimo: una conoscenza debole dell’italiano. Una piena competenza linguistica e soprattutto un dominio sicuro del lessico sono le condizioni indispensabili per diventare cittadini partecipi e consapevoli. Se tante persone oggi credono in alcune pericolose falsità diffuse tramite i social, è anche a causa del sempre più diffuso analfabetismo funzionale, che non consente di comprendere testi complessi né di cogliere le insidie provocate da chi dice il falso. Non tutto dipende dalla scuola, ma è evidente che proprio alla scuola spetta il compito principale di assicurare una conoscenza piena dell’italiano. Condivido con lei che studiare a scuola le teorie di Jakobson, di Chomsky o di altri importanti linguisti non ha senso, ma ha senso riflettere sulla lingua, sulle sue strutture e sul suo funzionamento. Lo studio della lingua italiana, quasi sempre compresso in pochissime ore, viene spesso del tutto abbandonato dopo le scuole medie o al più dopo il biennio delle superiori, mentre dovrebbe seguire l’intero percorso scolastico e universitario (e non solo nei corsi di Lettere). Concordo ancora con lei che pochi autori ma ben studiati (e soprattutto veramente letti) sarebbero preferibili a opere innumerevoli, ma i ragazzi vanno messi nella condizione di comprendere i testi letterari, di viverli e di impossessarsene. Non è possibile insegnare la passione per la lettura, ma è possibile suscitarla e sarà tanto più facile farlo quanto più si eviteranno gli eccessi di minute analisi retoriche e stilistiche. La scrittura cui educare gli studenti, infine, non è quella creativa, ma quella che potrà metterli in grado di argomentare, di esporre con chiarezza idee e concetti, di sintetizzare contenuti. Per tutto ciò occorre una riflessione autentica sugli interventi didattici da attuare, ma occorrono anche un’adeguata formazione degli insegnanti e una scuola a tempo pieno per tutti i cicli e per tutte le aree. Siamo uno dei pochissimi paesi occidentali a non avere una scuola a tempo pieno, anche perché ciò richiederebbe un maggior numero di docenti, di aule e di investimenti, che pur essendo investimenti per il futuro passano sempre, stabilmente in secondo piano.

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Luca Fiocchi Nicolai
09 agosto 2023 - 00:00
Nell'attesa vana che un'ombra di Professore si faccia timidamente avanti per dire la sua, dopo che l'allievo Vincenzo Masolo ci ha messo lodevolmente la faccia, concludo con una considerazione dilettantesca quindi utile. La grammatica Italiana che più ha significato per il destino delle nostre Lettere è quella del Bembo. Essa è scritta in un italiano privo di tecnicismi, a riprova della loro vanità. Su di essa furono poi scritte ad uso dei collegiali, o "ridotte a metodo", numerose opere altre che assecondando le esigenze editoriali e didattiche semplificarono, schematizzarono, velocizzarono l'apprendimento, normarono l'uso corretto della favella. Non discussioni ma precetti. Leggiamo se non Renzi Serianni, che passa per tradizionale e ci renderemo conto che colla sua opera non si ha di mira la veloce consultazione bensì la comprensione. L'Accademica Librandi, se avrà letto, sorriderà, ma rifletta un attimo (dov'è finito l'attimino?) sulla noia indotta dalla lettura degli algebrici contributi dei linguisti di oggi, che paiono più numerosi degli scrittori e che hanno sedotto pure Treccani, a scorrere i nomi e leggere i saggi dei compilatori dell'Encicolpedia dell'Italiano (con poche eccezioni, alcune Cruscanti o Cruschesche) e rimpiangera' gli autori di una volta. Credo che lo sforzo dello studente debba concentrarsi sull'acquisizione di una tecnica, ché scrivere è techne, e non sulla (finta) comprensione dei fatti e degli atti linguistici, per cedere alla moda filosofica dei Pierce. I dotti si dividono in due sole categorie: i creatori e gli insegnanti o coloro che tradono sapere. La scuola secondaria evade la pratica del nozionismo manualistico sfornando diplomati a cui un tempo sarebbe stata destinata come più utile la vanga. Oggi invece resta a gran parte di loro un deprimente e molestante call center.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
01 agosto 2023 - 00:00
P. P. S. In tanti anni, pur senza fare ricerche apposite, non ho mancato di origliare i sempre più svogliati dibattiti in seno alla classe politica sullo stato della scuola in Italia; perché, mi stinavo a pensare, assai conta la visione pedagogica del Principe, la considerazione che egli ha o non ha della cultura, della missione che questa è tenuta a svolgere, l'importanza che annette alla determinazione DEI PROGRAMMI SCOLASTICI ai fini della formazione della futura classe dirigente. Se il Parlamento nella sua articolazione partitica è il Principe, ebbene, cosa ho udito echeggiare in quelle aule che non vogliono essere sorde e grigie? nulla. Sembra che la sinistra politica abbia interesse solo per questioni edilizie e di arredo - bisogna ammodernare gli spazi, dotarli di banchi, di computer, di tablet, di connessioni, rendere confortevoli e riscaldati gli ambienti (mia madre, comunista di ferro, nell'unico Liceo Scientifico di Roma, il Cavour, seguiva lezioni in aulee prive di riscaldamento senza punto lamentarsene MA STUDIAVA SODO e all'esame di Maturità arrivò con altri sette, tra cui i fratelli Alicicco, Guglielmo ed Ernesto il medico della Roma) e accessibili "ai diversamente abili" - o per il reddito dei bidelli, del personale di segreteria, o si preoccupi dello "strapotere" dei Presidi che minerebbero l'autonomia didattica. A volte ho sentito parlare, con parole vuote, di una scuola inclusiva, resiliente, come luogo di socializzazione. Mai, dico mai ho percepito il benché minimo interesse per I CONTENUTI della didattica, che dall'unità d'Italia e per molti decenni fu la cura partecipe dei politici resi consci della posta in gioco. Perfino nel ventennio il regime mostro' di avere una sua politica scolastica incentrata sui contenuti e le forme dell'apprendimento. Dopo la liberazione, Marchesi e Banfi, accogliendo gli sparsi spunti dei Quaderni gramsciani, dibatterono con dotta passione sul posto da riservare al latino nella nostra scuola. Ricordo più di recente che la Melandri propose una sua lista prediletta di autori da far leggere agli studenti e, se anche a me non fregava nulla di Salinger, riconosco all'allora Ministro un modo giusto di vedere il problema. Credo che una società non abbia interesse all'autoimpoverimento linguistico almeno nella sua emanazione elitaria, pertanto per capire qual è la sua preoccupazione occorre guardare là dove questa elite si forma per aver garantita la sua perpetuazione nel ricambio. La domanda è : in quale scuola studiano i figli e i nipoti delle più alte cariche dello Stato, degli uomini ai vertici delle più prestigiose istituzioni culturali ed economiche? Allora si vede che, nel silenzio complice di chi sa, emergono due scuole, una di prima classe, l'altra data in pasto alla massa delle periferie, ove parcheggiare e "includere" (uff!) la futura Italia meticcia tanto cara alla Kyenge. Per quest'ultima scuola parlare di studio rigoroso, di Carducci e Pascoli, di severe bocciature è un non senso; conta integrare, con l'illusorio ausilio di manuali nei quali inserire a forza gli articoli della Costituzione e soprattuto occorre non "urtare sensibilità diverse" alias evitare crocifissi, presepi e magari non studiare le crociate; ma questa scuola di seconda classe è anche il laboratorio per testare nuovi canoni all'insegna del politicamente corretto, finalmente rappresentativi di tutte le culture dell'immigrazione, nel dilagante coacervo di razze ed etnie. Da questo magma chissà cosa uscirà, ma certo la lingua italiana ne è centrifugata e tende ad esplodere e la scuola intende farsene rappresentazione non selettiva. Di qui le promozioni a go go, le valutazioni bonarie ("nella seconda parte dell'anno si è tanto impegnato, va premiato") le ansie democratiche di non emarginazione, l'interesse per i ragazzi difficili. Altro che ferula! Siamo alle soglie del Medioevo, non c'è che dire. Senza nemmeno il soccorso dell'Appendix Probi.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
31 luglio 2023 - 00:00
P. S. A volte certi esempi dicono più di tante parole, sospettate di essere ispirate da acida malevolenza. Paola Cosentino, titolare del corso di Letteratura Italiana all'università di Torino per l'anno 2023/2024, indica tra i prerequisiti richiesti agli studenti che intendono seguirlo, testualmente, "Capacità espositiva senza GRAVI errori di grammatica e di sintassi" (il maiuscolo è mio). Ossia, la Docente, evidentemente rassegnata in partenza, ritiene sufficiente un livello di conoscenza della lingua italiana che metta al riparo dagli sfondoni più gravi, per i quali non è possibile far finta di niente, abbonandosi allo studente carenze espositive denotanti un possesso precario del mezzo linguistico,dato come normale. Insomma, se Gramsci e Gobetti a 17 anni si erano già affermati come giovani intellettuali di vaglia, l'Ateneo Torinese considera accettabile che i suoi allievi non sappiano esprimersi in modo adeguato. Ovvero che l'Esame di Stato non sia servito a nulla. Invito il Ministro dell'Istruzione Valditara a risparmiarci al prossimo giro il solito accorato, paterno e rassicurante videomessaggio di conforto e incoraggiamento ai maturandi. Al limite ammicchi complice per lasciar intendere che la prova sarà una passeggiata per oltre 99 studenti su 100.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
25 luglio 2023 - 00:00
Poiché non è bello sottrarsi al merito del tema dirò, in linea coll'ultimo mio intervento, che sia Quasimodo sia Moravia sono autori negli ultimi decenni usciti di moda, tanto è vero che non sono citati nelle indicazioni nazionali per i licei, mentre ivi leggiamo i nomi, per la poesia "contemporanea", di Sereni, Caproni, Luzi, Zanzotto, per la prosa di Calvino Morante P. Levi, Gadda Fenoglio Calvino, Pasolini, perfino Meneghello, il tutto in omaggio al plurilinguismo (Pasolini, uno degli ultimi scrittori interessati alla "Questione della lingua" collocava quella adoperata da Moravia ad un livello medio anodino, 'europeo'). Ora, è escluso che i maturandi di oggi siano in grado di analizzare la lingua e lo stile di autori non studiati, di spiegare un testo solo sulla base del con-testo storico-letterario, linguistico, di poetiche, o applicando allo specifico componimento quanto appreso dello stesso autore in altri testi. Non tutti sono dei Gian Biagio Conte in erba. La verita, lo ribadisco, è che gli studenti dovrebbero conoscere pochi testi fondamentali e bene. Su questi dovrebbero vertere le tracce. Dopo di che, Alla nuova luna finì sull'unità, che è tutto dire sulla relativa importanza della forma (a me piace tuttavia, per i riferimenti alla Vulgata e la solennita, oracolarita', simmetricita' e sentenziosita' dei versi, di cui resta qualcosa della lezione dei Greci. E resta l'ambizione ad essere "Es Aiei". Moravia infine, potente cupa livida e ossessiva descrizione di interni borghesi. Ma sono suggestioni, ricordi personali che nulla valgono a restituirne il sugo.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
21 luglio 2023 - 00:00
Nel suo bel libro "Conosciamo l'Italiano", edito per i Vostri tipi, Rosario Coluccia, nell'evidenziare lo stridore tra le percentuali bulgare di promossi agli esami di Maturità (oltre il 99 %) e l'esito impietoso delle prove Invalsi da cui emerge una conoscenza insufficiente della lingua Italiana da parte degli studenti, dice di non avere ricette, nondimeno invita le scuole a dotarsi di biblioteche e le Università a preparare i futuri insegnanti fornendo a loro le indispensabili nozioni di linguistica. Parini riteneva che per saper scrivere fosse sufficiente la lettura approfondita dei classici e lo studio della grammatica (della lingua Toscana) di Salvadore Corticelli. Assai agile e normativa. Scritta in un Italiano privo di tecnicismi. Altro che imbottitura di Saussure, Chomskj, Jacobson, grammatica generativa, tutta roba che fa fare un fugone agli studenti che amano la bellezza. Io ho letto molti più libri tra i quindici e i quarant'anni, tutto preso dalla foga dell'eclettismo. Sì, ma sapevo scrivere allora (facciamo per un momento finta, in un esperimento mentale, che io sappia scrivere)? Ad un certo punto mi chiesi insoddisfatto: come studiavano i grandi scrittori? quanti libri bastavano nel Medioevo ad un chierico per essere giudicato dotto? Ebbene, non solo ripresi lo studio del latino con nuovo fervore, ma scoprii che, presso gli Studi Umanistici, i collegi dei Gesuiti, dei Barnabiti, dei Somaschi, degli Scolopi, lo studio, la lettura dei classici si era sempre accompagnato all'apprendimento della competenza di scrittura, non erano fine a sé stessi. Decisi, io che avevo fatto il Liceo che tutti conosciamo, quello degli esami di Maturità farsa dove tutti, ma proprio tutti venivano promossi, decisi di dedicarmi ad una disciplina che mi mettesse in grado, mi obbligasse anzi a comporre, a consultare sistematicamente il Dizionario, a leggere qualsiasi cosa con la massima attenzione rivolta alla forma, ai sintagmi, alla struttura di una frase, al suono, alle figure retoriche, alle rime, al fine di forgiare nuove frasi all'insegna dell'ars combinatoria. Bene, grazie all'attività di creatore dei giochi enigmistici, al servizio della quale in certo senso la lettura degli autori è posta, una lettura strumentale, senza riverenza, volta alla presa di peso di intere frasi, a volte manipolate, lenta, selezionata di non molti libri ma buoni, ritengo di poter affermare di aver acquisito una migliore padronanza di quel meraviglioso ed espressivo strumento che è la lingua con la quale parliamo e scriviamo. Conclusione provvisoria: è inutile far leggere tonnellate di libri agli allievi, meglio abituarli sin dal ginnasio (un tempo dalla scuola media) alla scrittura prima imitativa poi creativa, sempre nel solco della tradizione, alla lettura di pochi libri, scelti bene, alla loro rilettura, ai sunti (non va di moda l'abstract?); snelliamo lo studio della grammatica (basta con questi strascichi di positivismo, di strutturalismo barbosi) e, poiché è soprattutto attraverso il fare dell'Homo faber che qualcosa si impara, diamo tanti esercizi di composizione. La scuola inventi il modo, ma, ribadisco, la lettura disancorata dalla scrittura non serve a nulla. E non lascia traccia.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
12 luglio 2023 - 00:00
Visto che nessuno scrive, per fare volume articolo meglio il mio precedente intervento per toglierne il sapore acido. Va da sé che, se la scuola è un diplomificio e chi giunge agli esami finali non è necessariamente la creme de la creme, il Ministero dovrà: 1) registrare l'immancabile videomessaggio nel quale dire più o meno :"ragazzi, coraggio, io sono con voi, ce la farete" ; 2) proporre tracce che in nessun modo mettano alla prova l'inesistente padronanza della lingua italiana e degli aspetti metrici e in generale formali da parte della media degli studenti. Da quando la scuola non insegna più a scrivere, da quando si è perso il nesso con il latino, l'insegnamento della letteratura italiana si riduce ad un inquadramento manualistico della materia privato del momento compositivo creativo. Inutile sorprendersi per le scelte. Quanto alla Fallaci, non l'ho mai letta, ma se vale vale come scrittrice non come donna. Tutto qui. En passant faccio notare come si assista da tempo, da parte di editori e Atenei, alla ricerca col lanternino di "capolavori" femminili negletti, per sostituire il canone ricevuto dai padri con un altro "inclusivo", magari di autori immigrati e di autrici che nessuno ha giustamente mai preso in considerazione per il loro scarso contributo letterario. Ma oggi conta "dare l'esempio", come fanno da decenni i telefilm americani da noi bevuti mattina e sera. Intervento più sgradevole del precedente ma meglio motivato.

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Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
17 luglio 2023 - 00:00
Ennesima autocorrezione (lo spazio limitato entro cui compare il testo scritto non incoraggia in me pigro una sana rilettura, tanto meno il labor limae): l'autrice Oriana Fallaci varrà, se varrà, come scrittrice non semplicemente IN QUANTO donna. Inoltre, " il momento compositivo e creativo" di cui lo studio della letteratura Italiana è privato, è quella necessaria competizione con gli auctores guidata dal maestro in cui, alla prima fase dell'imitazione - plagio volta ad assimilare tecniche e competenza di scrittura segue, per i più capaci, il principio della formazione, lenta e faticosa, di uno stile personale. Anche mercé una scelta degli auctores congeniali. Ovvio che una tale palestra fa selezione, ma la scuola non dovrebbe diseducare i giovani colla didattica creativa illudendoli che lo studio è divertente; inutile poi promuovere ragazzi con paurosi vuoti formativi al solo scopo di togliere valore al titolo di studio, costringendo per giunta l'università ad approntare corsi propedeutici rivolti ai semianalfabeti, che so, di lingua latina, per rimediare allo scaricabarile. Se la scuola fosse seria, se già solo lo spirito delle indicazioni ministeriali fosse rispettato alla lettera gli esami di Maturità tornerebbero ad essere quella rigorosa verifica (per i pochi rimasti dopo opportuna falcidia della zavorra) di quanto appreso nel quinquennio che era nella mente di Giovanni Gentile. Dopo di che non c'è da allarmarsi : i migliori, pochi oggi come ieri, emergono immancabilemnte dalla pletora dei promossi e si impongono prima o poi col loro genio.
Vincenzo masolo
06 luglio 2023 - 00:00
Le tracce erano difficilissime, io ho scelto l'idea di nazione di federico chabod, parlando generalmente della mia "idea di nazione"

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
06 luglio 2023 - 00:00
A ricordare che dal 1923 ad oggi tanta acqua è passata sotto i ponti basta l'accostamento del curriculum dei due Ministri citati che aprono e chiudono il secolo di storia degli esami di Maturità : l'uno risponde al nome di Giovanni Gentile, filosofo di fama indiscussa, il quale impose nella scuola secondaria programmi di studio severissimi e ardui anche per gli universitari di oggi, l'altro a quello di Valeria Fedeli...e non vorrei che il solo biologico fatto di essere donna sia di per sé motivo di merito, come l'osservazione sulla Fallaci sembrerebbe autorizzare.

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