L'uso dell'italiano nell'ambito dell'Unione europea

di Jane Nystedt

Jane Nystedt insegna all'Università di Stoccolma. Il discorso qui pubblicato è stato tenuto presso l'Accademia della Crusca il 29 novembre 2005, durante il Convegno La Toscana per le lingue d'Europa, nell'ambito della Festa della Toscana 2005.

Ringrazio la Regione della Toscana e l'Accademia della Crusca per avermi rivolto questo invito a poter contribuire alle conoscenze di un particolare settore della lingua italiana in un contesto europeo. Soprattutto qui, in Toscana, la culla della lingua italiana, questa sfida mi è particolarmente cara.

Come sappiamo, lo sviluppo dell'Unione europea influisce e continua a influire sullo sviluppo economico, giuridico, sociale e culturale, e anche in modo significativo sullo sviluppo linguistico; e ciò che dico può, grosso modo, valere per ognuna delle lingue ufficiali. A mio avviso, le varie lingue dell'Unione europea sono state influenzate da questi vari sviluppi, nel senso che la lingua, scritta o parlata, usata nell'ambito della sede dell'Unione, può considerarsi una variante linguistica della rispettiva lingua nazionale.

Certamente abbiamo a che fare con dei linguaggi settoriali, speciali, specialistici - come volete -, e alcuni studiosi hanno parlato appunto di un euroletto o un eurocratese; perfino nel servizio di traduzione a Bruxelles si parla di un "linguaggio settoriale addirittura particolare".

Com'è risaputo, nel Trattato di Roma già venne sancita la parità di tutti i sistemi di espressione dei cittadini dell'allora Comunità. Perciò gli atti devono essere pubblicati in tutte le lingue ufficiali, con piena parità tra le differenti versioni, e proprio la parola 'versione' è qua importante. Non è però il caso di illudersi: anche se i testi nelle varie lingue vengono considerate "versioni" e non "traduzioni", traduzioni sono e non sempre eseguite nelle migliori condizioni di lavoro. Molte volte gli autori dei documenti non hanno come madrelingua la lingua in cui scrivono. Questo comporta che spesso i testi originali soffrono di imperfezioni o addirittura errori linguistici che certamente non diventano né più corretti, né più comprensibili nelle varie traduzioni! La stragrande maggioranza dei documenti viene stesa prima in francese o in inglese e da queste lingue tradotta nelle altre lingue ufficiali - quasi sempre entro margini di tempo molto brevi. Inoltre, i traduttori, tranne quelli di madrelingua francese, vivono per molti anni fuori dell'ambiente linguistico naturale della propria lingua. Più di uno riconosce il fatto che, dopo non molto tempo, si comincia a perdere la sensibilità per la lingua madre e si diventa sempre più disposti ad accettare parole e costrutti segnati dall'inglese o dal francese. Tutto questo malgrado la televisione in varie lingue, i giornali, le visite in Patria, corsi di aggiornamento e tutte le buone intenzioni possibili; si vive appunto fuori della società linguistica naturale, quella dove si sviluppa la lingua nazionale quotidiana, "viva e parlata", per parafrasare Machiavelli.

Una delle molte caratteristiche dei testi italiani dell'Unione europea è l'abbondanza di forestierismi, quali claim, insider trading, cash-flow, marketing, software, lay-out, tour operator e altri. Molti di questi termini sono completamente integrati e vengono adoperati anche nell'italiano quotidiano. Però il fatto che vengano utilizzati nei testi italiani dell'UE, e non i loro corrispettivi italiani, indica appunto la traduzione dall'inglese: a causa della fretta, si fa prima a prendere un sintagma in inglese che a pensare a un equivalente italiano. In questo contesto, parlando dei forestierismi, bisogna chiedersi se questi termini in inglese aiutano alla comprensione o, al contrario, la impediscono. Possiamo riflettere sull'opinione varie volte espressa, che la lingua legislativa - di cui indubbiamente qui si tratta, i documenti spesso di natura vincolante - è consapevolmente ambigua per lasciare all'utente una possibile interpretazione aperta; nell'ambito unitario si tratta di interpretare i testi in modo che gli Stati membri possano arrivare appunto alle versioni armonizzate, di cui si è parlato poc'anzi: tutti gli Stati devono poter essere d'accordo sul contenuto dei documenti. Nei documenti dell'UE troviamo perciò numerose incertezze e ambiguità che sono il risultato di posizioni divergenti, e i legislatori si devono dare premura di produrre un testo sul quale tutti gli Stati membri possano consentire.

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Un problema fondamentale dell'italiano usato nell'ambito dell'Unione europea, giuridico e democratico, riguarda la comprensibilità e l'attendibilità dei testi. I testi servono da base per la legislazione nazionale e per l'applicazione delle leggi. Il cittadino ha il diritto indiscutibile di comprendere un regolamento che lo riguarda e di controllare che le disposizioni di una direttiva siano applicate in modo corretto nella legislazione del proprio Paese. Testi chiari sono inoltre una condizione per un vivace e reale dibattito pubblico. Se a questo punto qualcuno sostiene che i testi della Comunità siano intesi per Stati, governi, istituzioni e simili, voglio ribadire, citando dalla Guida per il servizio di traduzione:

Il diritto comunitario è dunque fonte di norme che si rivolgono sia agli Stati membri (governi, enti locali, organi dell'amministrazione) che ai privati (persone fisiche, persone giuridiche, associazioni, imprese); affinché esso possa raggiungere i suoi scopi in tutto il territorio della Comunità è necessario che le sue norme esplichino uniformemente la pienezza dei loro effetti senza che i destinatari sopra citati possano opporgli limiti, riserve o condizioni.
[...] in ogni situazione disciplinata dal diritto comunitario, le norme [...] fanno sorgere a favore dei singoli (persone fisiche e giuridiche) diritti soggettivi (corrispondentemente, obblighi a carico di altri soggetti);

È evidente, quindi, che, in teoria, abbiamo tutto il diritto di esigere che i testi comunitari siano non solo per gli specialisti ma che siano comprensibili per un pubblico molto più ampio. In pratica, però, non è così; i testi non sono chiari, troppi cittadini europei non ne capiscono il senso, e per questo vige una certa insoddisfazione, o scontentezza, che contagia il parere generale sull'Unione europea, e le istituzioni comunitarie restano praticamente sconosciute e sono oggetto di una persistente diffidenza.

Nei vari Stati membri i governi sono sensibili a queste critiche e si cerca di rimediare. Uno degli obiettivi più chiaramente stabiliti nel trattato di Maastricht è p. es. che l'Europa unita non debba essere uno Stato centralizzato con strutture rigide ma che le diversità culturali, nazionali e regionali siano mantenute. E si parla di molti, di tanti, diritti dei cittadini europei, ma non del diritto alla tutela della propria lingua. Si parla di un'Europa comprensibile, ma non in termini linguistici. Forse, avendo una volta stabilito il diritto di ognuno di parlare e di rivolgersi alle varie istituzioni nella propria lingua, si dà per scontato che la situazione linguistica sia sistemata. Ma in ciò i governi degli Stati membri sbagliano; la lingua ha bisogno di essere tutelata e curata. Inoltre, bisogna far sì che una lingua non perda 'campi di applicazione'. Come è risaputo, già in parecchi settori scientifici i testi vengono pubblicati quasi esclusivamente in inglese. Sarebbe una catastrofe se i testi elaborati nell'ambito unitario non fossero tradotti in ognuna delle lingue ufficiali - e per di più: in una buona lingua.

Questo per ora purtroppo non accade. Anche se è lecito, secondo le regole della Guida per il servizio di traduzione, di "introdurre eventuali miglioramenti", i traduttori per lo più non ne hanno il tempo. E così si tramandano strutture che sono molte volte tutto fuorché esemplari. Un grave svantaggio per i traduttori, ma possiamo certamente dire anche per gli autori dei testi, è che non hanno nessun contatto con la popolazione; non esiste nessun feedback - per utilizzare anche qui un internazionalismo - di come vengono recepiti i testi. Si capiscono? Quali ne sono i difetti? E quali gli eventuali pregi?

Di questi problemi, però, non si parla volentieri ad alta voce, né nella Gazzetta ufficiale - organo ufficiale dell'Unione, pubblicato ogni giorno in ognuna delle lingue ufficiali - né in altra sede dell'Unione. Ma in qualche modo la lingua dei testi poco a poco viene accettata, viene trasmessa nella legislazione dei vari Paesi membri per eventualmente passare nella lingua ufficiale del rispettivo Stato.

L'Europa multilingue è un fatto e l'Unione europea multilingue è l'espressione di una volontà fondata sui principi della democrazia.

Così inizia il testo di un opuscolo d'informazione sul multilinguismo e sulla traduzione nell'Unione europea, pubblicato dall'Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee. Inoltre, secondo l'opuscolo:

Ciascuno deve poter parlare la propria lingua, l'uguaglianza tra i cittadini implica la parità dei loro sistemi di espressione,

due principi decisi già nel Trattato di Roma, nel 1957 e raffermati a parecchie riprese in molto materiale d'informazione, prima sulle Comunità europee, poi sull'Unione europea; quindi, belle parole sui "principi della democrazia". Ma quello che effettivamente si dice nel Trattato di Roma, articolo 21, è:

Ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all'articolo 7 in una delle lingue menzionate all'articolo 314 e ricevere una risposta nella stessa lingua.

Essendo benevoli, si può anche interpretare in modo favorevole l'articolo 149, comma 1, come positivo anche per quanto riguarda le lingue:

La Comunità contribuisce allo sviluppo di un'istruzione di qualità, incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell'insegnamento e l'organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche (corsivo mio).

Proseguendo nella lettura, ci si rende invece conto che l'intenzione è piuttosto di sviluppare la dimensione europea dell'istruzione, segnatamente con l'apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri, cioè 'apprendimento' e 'diffusione', non tutela della propria lingua di ogni Stato membro.

Anche nei trattati successivi, quello di Maastricht sull'Unione europea del 1992 e quello di Amsterdam del 1997, non si fa che ripetere quest'articolo; altro non si dice di questioni 'linguistiche' tranne ciò che riguarda le traduzioni dei documenti e la validità di questi nelle varie lingue. Ecco tutto ciò che si propone sulla problematica delle competenze linguistiche, in tutti i trattati di un'Europa che tra l'altro si dice tutore dei valori culturali, etnici ecc.

A mio parere, è senz'altro lecito chiedersi quale sarà il destino delle lingue ufficiali dell'Unione europea. Sarà possibile per ognuna di queste lingue mantenere il proprio status? Quale ne sarà l'evoluzione? Soffriranno forse del tanto lodato plurilinguismo? O soffriranno eventualmente di più per i tentativi più o meno ufficiali di ridurre il numero delle lingue a, come proposto, tre come lingue di lavoro in alcune delle istituzioni? E l'Unione, come farà a maneggiare ancora le varie lingue degli Stati che sono sulla lista d'attesa per poterci entrare?

La popolazione europea non accetta incondizionatamente l'Unione né la poca trasparenza dei documenti. In una Comunità più aperta sarebbe auspicabile un linguaggio semplice e chiaro perché i documenti ufficiali risultino più comprensibili per i cittadini. Così "i documenti europei potrebbero favorire l'armonia e la coesione in Europa", come si dice in un documento, e il messaggio dei testi risulterebbe chiaro a tutti i cittadini. Il documento riconosce anche la difficoltà dei funzionari e dei traduttori di liberarsi delle vecchie abitudini di linguaggio gergale e giuridico e dell'uso di terminologie standard, come quella di liberarsi delle tendenze a conformarsi a testi precedenti. In una risoluzione del Consiglio del 1993 sulla qualità redazionale della legislazione comunitaria, con l'obiettivo generale di rendere la legislazione comunitaria più accessibile, si conclude così:

adesso occorre passare ai fatti. I cittadini d'Europa vogliono che i documenti europei siano scritti in modo semplice e chiaro. Cerchiamo di accontentarli.

Parole forse convincenti ma bisogna osservare che molti dei documenti non hanno la minima forza vincolante bensì, secondo la Guida per il servizio di traduzione già citata, hanno la funzione di indirizzo politico generale dell'Unione. Nella risoluzione si sottolinea addirittura che si tratta di linee direttrici che:

non sono né vincolanti né esaurienti e mirano unicamente a rendere la legislazione comunitaria quanto più possibile chiara, semplice, concisa e comprensibile.

Non è che i risultati concreti di queste raccomandazioni siano molto evidenti nei documenti più recenti, il che è anche strano, visto che in quasi tutti gli Stati membri si sta lavorando per semplificare il linguaggio legislativo e amministrativo. Ovviamente è difficile modificare le tradizioni e le usanze, soprattutto nella traduzione tradizionale che mira a ricreare nella lingua d'arrivo proprio la forma del testo di partenza.

Bisogna concordare su un principio di qualità delle lingue e delle traduzioni nell'ambito dell'Unione. Le caratteristiche, i difetti - se così vogliamo dire - riguardano tutte le lingue dell'Unione, "grandi" e "piccoli". Per la non perfetta conoscenza degli autori della relativa lingua, le lingue si appiattiscono, perdono sfumature, integrano costrutti da altre lingue. È necessario considerare la situazione delle rispettive lingue e, attivamente, cercare come meglio sorreggerne il mantenimento. Le lingue sono tutte importanti nella stessa misura, sia perché patrimonio culturale indispensabile, sia perché condizione sine qua non per la democrazia.

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Ancora brevemente su un argomento scottante dei nostri giorni: L'Unione europea è maschilista? Intenzionalmente, no di sicuro. Già negli albori di ciò che è ora l'Unione europea, il Trattato di Roma, l'articolo 3.2 stabilisce che

L'azione della Comunità a norma del presente articolo mira ad eliminare le inuguaglianze nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne.

L'articolo 6 del Trattato di Amsterdam del 1998 dice che il Consiglio dei Ministri

può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali

e l'articolo 119 assicura il principio della parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, come il

principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

L'articolo continua, parlando della

effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa.

In linea di massima, quindi, non sembrano esserci problemi di mancata premura per la parità tra uomo e donna nella nostra unione europea. Ma vediamo come si esprimono le istituzioni in merito.

La mia indagine su questo aspetto della lingua si basa su documenti della Gazzetta ufficiale, sui vari trattati, (quello di Roma del 1957 sulla Comunità europea, quello di Maastricht del 1992 sull'Unione europea e quello di Amsterdam del 1998, sempre nella rispettiva versione italiana) e su una parte della estensiva documentazione informativa, pubblicata dalla Commissione delle Comunità europee, e diffusa allo scopo di informare il pubblico europeo su varie questioni di primario interesse per l'Unione e i suoi abitanti.

Abbiamo a che fare con dei documenti che riguardano le norme per una popolazione di cui oltre il 50% è costituito da donne e il quesito che si pone a questo punto è se le dette proporzioni per quel che riguarda la popolazione trovino riscontro nei documenti in generale e nei documenti che trattano le pari opportunità in particolare. Vorrei proporre una riflessione su alcuni dei tanti esempi tratti dal nostro materiale, per descrivere l'Unione e il suo uso del sistema linguistico italiano per parlare alla e della propria popolazione, donne e uomini. Titoli quali avvocato, direttore, dirigente, docente, giudice, medico, ministro, presidente, procuratore, revisore sono sempre, ma sempre al maschile; di donne si parla come "categoria svantaggiata" o in sintagmi come "donne, migranti e handicappati". Abbiamo visto come le intenzioni erano - e sicuramente sono - di trattare in uguale modo gli uomini e le donne e di offrire ad ambedue i sessi pari opportunità, in ogni settore della vita. Ma le pari opportunità non possono riguardare le donne che abbiano aspirazioni di carriera, dato che ogni titolo prestigioso è marcatamente al maschile. Per le donne d'Europa dovrebbe essere poco gratificante vedersi continuamente menzionate come "categoria svantaggiata". Ministri, deputati, presidenti e commissari sono maschi, anzi, sono uomini politici o personaggi di rilievo della vita politica!

Ci sono tuttavia segnali positivi, le premesse sono buone e qualche miglioramento c'è negli ultimi tempi, nei vari depliant adesso in distribuzione, anche quando si parla di come rafforzare l'immagine positiva delle donne e come incoraggiarle ad assumere posizioni chiave, sia nella vita economica che in quella politica. Importante tutto questo per far la donna sentirsi motivata e osare presentare domanda per quei tipi di posti nella società. L'Unione, per essere davvero democratica, deve riflettere sull'uso della lingua nella legislazione e nel materiale d'informazione, per non - tramite forme sicuramente non pensate come sessiste - occultare il circa 51% della propria popolazione costituito da donne.

L'Unione europea non è certamente maschilista, lo sono invece alcune lingue, tra le quali l'italiano, o piuttosto l'uso non consapevole dell'italiano. Le strutture lessicali e il sistema morfologico dell'italiano, come anche di altre lingue, offrono per questo molte possibilità, morfologiche e lessicali. Sarà senz'altro possibile cercare queste strutture e adoperare in pieno il sistema per rendere l'italiano dell'Unione europea una lingua che esprime e promuove una parità effettiva tra donne e uomini. Qualcuno ha detto che la lingua cambia la società quanto la società cambia la lingua; se l'Unione, da precorritrice, curerà il suo uso linguistico nella comunicazione con la popolazione europea, nelle lingue che lo richiedano, avremo una Unione davvero democratica che offrirà in realtà pari opportunità alle donne e agli uomini.

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Nei seguenti lavori, tutti facilmente rintracciabili e di natura abbastanza divulgativa, ho scritto ulteriormente sugli argomenti trattati sopra:

1999
"L'Italiano che si scrive a Bruxelles". Italiano e oltre, 4, 198-206.

2000
"Le lingue dell'Unione europea: 'isole linguistiche' con quale destino?". Isole linguistiche? Per un'analisi dei sistemi in contatto. Sappada (Belluno) 1-4 luglio 1999. Ed. G. Marcato. Padova: Unipress, 223-31.

2002
"Un'Europa per le donne - Le donne per l'Europa: Problemi linguistici di credibilità". XV Congresso dei romanisti scandinavi, Olso, 12-17 agosto 2002. Romansk Forum, Nr. 16-2002/2 (http://www.digbib.uio.no/roman/page21.html)

2003
"L'italiano dell'Unione europea". "In quella parte della memoria...". Verità e finzioni dell'"io" autobiografico. XXXVI Corso di aggiornamento e perfezionamento per italianisti, Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia, 9-26 luglio 2002. Ed. Francesco Bruni.