Discorso di saluto

di Alfredo Bosi

Pubblichiamo il discorso di saluto che Alfredo Bosi, membro dell'Accademia Brasiliana di Lettere, ha rivolto ai partecipanti della manifestazione La piazza delle lingue 2010: l'italiano degli altri che si è svolta a Firenze il 27 e 28 maggio 2010.
Alfredo Bosi, in questo intervento, traccia per grandi linee i momenti fondamentali del suo incontro con la cultura e la lingua italiana, la presenza degli italiani in Brasile e la sua esperienza di studio universitario a Firenze negli anni Sessanta.

Ho il piacere e l'onore di portarvi il saluto dell'Accademia Brasiliana di Lettere a nome del suo presidente, Dott. Marcos Vinicios Villaça, e dei miei confratelli accademici.

Sono per lo meno tre le ragioni che mi hanno fatto accettare con animo lieto questa onorevole rappresentanza.

Anzitutto una ragione istituzionale. Come la Crusca, l'Accademia Brasiliana di Lettere mantiene come sua missione fondamentale lo studio e la diffusione della lingua, qui l'italiano, in Brasile il portoghese (non direi brasiliano, perché non esiste una lingua brasiliana e nemmeno un dialetto brasiliano). Il recente Accordo Ortografico, elaborato in gran parte mediante l'aiuto della nostra Accademia e già incorporato al Vocabolario della Lingua Portoghese da essa recentemente pubblicato, cerca precisamente di unificare l'uso colto del portoghese europeo, americano e africano. Ci sono naturalmente polemiche e dissensi intorno a codesto ideale di uniformità, ma, e questa è una tesi che si potrebbe discutere, tutto ciò che avvicina i popoli, soprattutto quando si tratta di linguaggio scritto colto, merita un'attenzione particolare e magari uno sguardo favorevole. Come membro dell'Accademia Brasiliana di Lettere compio il gradito dovere di citare il nome di un caro confratello, l'insigne filologo Evanildo Bechara. Senza la sua competenza e sollecitudine, l'Accordo e il Vocabolario non sarebbero arrivati a termine.

La seconda ragione, che si colloca tra il locus istituzionale e il mio itinerario culturale, riguarda la mia formazione italianistica intrapresa negli anni Sessanta come studente di Lettere all'Università di Firenze. Ebbi allora il sommo privilegio di seguire i corsi di Giacomo Devoto, Bruno Migliorini, Walter Binni e Eugenio Garin, i primi due anche presidenti di questa Accademia. Nello stesso decennio mi sono laureato presso l'Università di San Paulo con una tesi sulla narrativa pirandelliana e, nel '70, ho presentato come lavoro di libera docenza un saggio sulla poesia di Leopardi. Ma gli anni neri, gli anni detti di piombo della dittatura militare brasiliana mi fecero cambiar strada e abbracciare definitivamente lo studio della storia e della letteratura brasiliana, scelta a cui sono stato finora fedele. La mia stagione italiana fu dunque relativamente breve. Ma abbastanza densa e intensa per convincermi della necessità di trasmettere la cultura italiana, specialmente la lingua, la letteratura, la filosofia e la sua alta tradizione umanistica, principalmente attraverso i programmi universitari. La ragione è semplice e storica. Alla lingua italiana non toccò, come alla francese nel Settecento e all'inglese nel Novecento, la fortuna dell'universalità. Non ci fu mai una ampia koinè italiana paragonabile alla koinè inglese nostra contemporanea.

Una universalità parziale, se è possibile chiamarla cosi, è avvenuta dopo il Rinascimento e si svolse grazie alla magia della musica barocca, oppure, nell'Ottocento, con la grande diffusione dell'opera, ma non certo attraverso una universalizzazione della lingua.

I milioni di migranti che hanno offerto meritoriamente il loro lavoro al Brasile, all'Argentina e agli Stati Uniti, non conservarono gelosamente l'uso della lingua, diversamente da quanto fecero, per esempio, i tedeschi, i cui figli e nipoti continuarono a imparare fin da bambini la lingua materna e quindi la mantennero a lungo. Gli Italiani, forse più flessibili o meno xenofobi, hanno rinunciato precocemente a custodire un tesoro al quale forse non hanno saputo dare il dovuto valore. I numerosi discendenti di Italiani che vivono a San Paolo (quasi la metà della popolazione era italiana o figlia d'italiani negli anni '20 e '30 del secolo scorso) non parlano e nemmeno leggono un testo italiano. Mia madre, nata a Salerno, ma arrivata in Brasile a soli due mesi, non parlava italiano in casa, e neppure mio padre, figlio di toscani, quantunque avesse appreso assai bene la lingua in una scuola elementare chiamata Regina Margherita, che si trovava nel quartiere italobrasiliano di S. Paolo.

Ci vorrebbero corsi secondari e universitari per insegnare ai figli e nipoti la lingua e la cultura dei loro avi. Non saprei dire se questo convegno volto all'italiano europeo potrebbe interessarsi a questo problema specifico. Ma mi sembra doveroso, come ex-docente di Lettere italiane all'estero, rendere qui la mia testimonianza.

La terza e ultima ragione è schiettamente personale. Firenze è per me una città piena di ricordi della mia prima giovinezza. Vi chiedo il permesso de evocare brevemente il mio lontano soggiorno nella vostra città. Avevo finito il corso di Lingue Romanze quando il prof. Italo Bettarello, che era stato assistente di Ungaretti e allora teneva la cattedra di Letteratura italiana, mi offrì l'opportunità di studiare in Italia con una borsa di studi concessa dal Ministero degli Affari Esteri. Mi chiese se avessi qualche preferenza sulla città. Io ero un candido lettore di Manzoni (lo sono ancora) e candidamente credevo che solo Firenze mi avrebbe permesso di sentire e parlare il vero italiano. E credevo altrettanto che il mio goffo e titubante italiano scolastico avesse bisogno di risciacquare i panni nelle acque dell'Arno. E così, appena sposato, sono arrivato in questa vostra città con una magra borsa di sessanta mila lire e un desiderio appassionato di conoscere Firenze. L'unico alloggio che potevo permettermi fu una soffitta nel quartiere di San Niccolò, in un'antica abitazione dei cavallerizzi del conte Serristori. Firenze negli anni '60, senza ascensori, senza riscaldamento, senza doccia, ma, in compenso, c'era Giorgio La Pira. Firenze di quel tempo, senza turisti, grave, sobria, austera, solenne, petrea. Ho conosciuto la sua bellezza nuda, le piazze vuote, spettrali, i musei deserti. Ho sentito con meraviglia nel circolo operaio di San Niccolò le storie raccontate dal padre di Pratolini, narratore che ho ammirato fin dalla lettura di Cronache di poveri amanti. Sono andato a San Frediano dove forse speravo di trovare ancora le ragazze del suo romanzo. Per arrivare al Piazzale Michelangelo la strada era di campagna. In definitiva, io ho conosciuto e amato una città anteriore alla cultura di massa. Ultimo ricordo: quando dovevo andare in Facoltà, vedevo sempre un edifício misterioso che si chiamava Accademia della Crusca e si trovava allora davanti all'Arno. Non sapevo cosa facessero i suoi abitanti sempre invisibili. Oggi sono qui nella villa medicea di Castello, e vedo che gli accademici sono i più ospitali degli anfitrioni. Grazie tante!