Cattive notizie nell’anno di Dante: l’italiano negletto del PRIN

Lettera aperta al Ministro dell’Università Gaetano Manfredi

di Claudio Marazzini

Il presidente dell'Accademia Claudio Marazzini invita ancora, attraverso una lettera aperta indirizzata al ministro dell'Università e della ricerca, a riflettere sulla politica linguistica adottata dalle istituzioni italiane.

Gennaio 2021

  

di Claudio Marazzini

“Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella,
credono più essere ammirati  che ritraendo quelle de la sua.
E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana;
ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto”
(Dante, Convivio, I, XI)


Il 4 novembre 2020, dopo che era stato diffuso il nuovo bando PRIN, cioè il bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale rivolto ai nostri atenei, ho mandato, a nome dell’Accademia della Crusca, questa lettera al Signor Ministro dell’Università, prof. Gaetano Manfredi:

Onorevole Signor Ministro Manfredi,
con grande rammarico ho constatato che la domanda per rispondere al bando dei finanziamenti PRIN 2020 da poco pubblicato prevede (art. 5 comma 2) un testo ufficiale redatto solo in lingua inglese, mentre la versione italiana, definita “ulteriore”, è considerata accessoria, da allegare a scelta del proponente. Mi sembra evidente che in tal modo le due lingue non sono poste su di un piano di parità, e anzi l’italiano risulta visibilmente svilito.
Mi permetto di ricordarLe la ‘storia linguistica’ delle domande PRIN. Fino al 1997 la domanda fu sempre redatta in italiano. Dal 1998 (Ministro Berlinguer) le domande furono richieste in italiano e in inglese, con la motivazione di estendere in questo modo il numero dei valutatori internazionali. Nel 2012 (Ministro Profumo), la domanda fu ancora richiesta in due lingue, italiano e inglese, poste su di un piano di parità. Nel 2015 (Ministra Giannini), la domanda fu in italiano o in inglese, ma “a scelta del proponente” (art. 4, comma 2). Nel 2017 (Ministra Fedeli), la domanda fu imposta solo in inglese, con un’eventuale versione ancillare in italiano, secondo la medesima formulazione che si ritrova nel bando 2020 ora emanato sotto il Suo Ministero.
Nel dicembre 2017 e poi nel 2018, ci fu una reazione contro la domanda ufficiale del PRIN 2017 richiesta obbligatoriamente e solo in inglese. La polemica fu avviata da un articolo del Sole 24 ore, a cui seguì un intervento dell’Accademia della Crusca (che si legge ancora, ricorrendo a questo collegamento: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/il-miur-d-un-calcio-all-taliano/7420 ). Ci fu una risposta della Ministra Fedeli, che si legge mediante un altro collegamento posto nella stessa pagina web dell’Accademia. Si aprì un vivace dibattito, che ebbe un seguito anche in alcune pagine di un mio libro (cfr. C.M., L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, Rizzoli, 2018, pp. 74-98).
Non ripeterò qui gli argomenti emersi in quel dibattito. Mi limiterò a chiederLe per quale ragione non sia possibile porre le due lingue allo stesso livello, richiedendo le domande sia in italiano sia in inglese. Se la giustificazione dell’inglese sta nella necessità di una valutazione internazionale, è evidente che alcune discipline non possono avere valutatori che non conoscano l’italiano (si pensi alla letteratura italiana, alla linguistica italiana, al diritto italiano). Per queste discipline, la redazione in inglese potrebbe non essere indispensabile, come del resto potrebbe non esserlo quella in italiano in altri ambiti disciplinari. Tuttavia, tenendo conto che l’inglese è la lingua della comunicazione scientifica internazionale e che l'italiano è la lingua ufficiale della nazione, è opportuno che l'uso di entrambe le lingue sia richiesto a tutti, anche a coloro che non usano o non vogliono usare l’italiano nelle loro ricerche scientifiche. Ciò li aiuterà a non dimenticare in quale paese vivono, e aiuterà tutti noi a tener vivo anche l’italiano tecnico-scientifico.
Le sarò grato, Signor Ministro, se vorrà riflettere sul problema, in considerazione di questo e di altri bandi PRIN.
Mi creda suo
C.M.

La lettera fino ad oggi non ha avuto risposta. So che alcune istituzioni culturali hanno a loro volta scritto al Ministro lettere analoghe. Non so se questi sforzi abbiano raggiunto lo scopo più profondo che ci animava: non tanto smuovere la burocrazia per uno specifico atto, ma sollecitare la riflessione su di un tema di grande importanza per la sopravvivenza della lingua italiana come strumento di elevata cultura, collegato all’uso dell’italiano negli atenei, argomento su cui si è discusso tempo fa, coinvolgendo il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale. Nel 2017 l’identica questione ebbe come esito una vivace polemica, che allora si avviò proprio in questa medesima rubrica, favorita da un titolo impressivo che attirò l’attenzione della stampa: “Il MIUR dà un calcio all’italiano”.

Avrei potuto adottare oggi un titolo corrispondente, ad esempio “Il MIUR dà un altro calcio all’italiano”. Non l’ho fatto, così come non ho voluto rendere subito pubblica la mia lettera al Ministro Manfredi. Non ho voluto sollevare polemiche in un momento difficile per la vita del paese e per la stessa organizzazione della ricerca e della didattica universitaria, duramente messa alla prova dalla covid-19. Ora, però, siamo giunti a ridosso della data di scadenza delle domande del PRIN. Pur mettendo in atto ogni sforzo per comprendere le ragioni avverse, continuo a non capire perché le due lingue, l’italiano nazionale e l’inglese internazionale, non possano convivere pacificamente, presentandosi in casi come questi abbinate, con pari diritti. Perché una lingua deve scalzare l’altra? Se a un italianista, o a uno studioso di diritto italiano, viene richiesto di stilare la propria domanda in inglese, benché sia chiaro che la sua ricerca non potrà mai essere giudicata e compresa da chi non intenda l’italiano, perché uno sforzo analogo non dovrebbe essere richiesto a chi, per converso, ritenga di dover essere valutato solo da chi legga la sua domanda redatta in inglese, nella certezza (quanto legittima?) che mai lo capirà chi legge il nostro idioma del sì? Tutti gli studiosi devono accettare lo sforzo di farsi intendere dalla comunità scientifica di riferimento, ma al tempo stesso tutti dovrebbero maturare il massimo rispetto della loro lingua nazionale, per quanto questo possa costare loro un po’ di fatica, favorendo comunque lo sforzo del tradurre, che è sempre un modo per riflettere vantaggiosamente su significati e contenuti, come ci insegnava Umberto Eco. Dico questo sapendo che già oggi alcuni membri della nostra comunità accademica appoggiano la soluzione adottata dal MIUR, sostenendo, quasi con vanto, di non essere in grado di discorrere in italiano della loro scienza. Proprio in questa affermazione sta il pericolo più grave: una lingua che non venga usata per la scienza, che anzi ne sia reputata contenitore impossibile, decade rapidamente al rango di dialetto. L’italiano non merita questa fine, e il MIUR non dovrebbe avere interesse a favorire una decadenza del genere.

Un confronto su questo delicato tema, sollecitato, spero, dalla pubblicazione di questo mio intervento, servirebbe a pesare le ragioni a confronto di chi, come me, difende l’italiano, e di chi ostinatamente, per la seconda volta, ha preferito abolirlo, pur ammettendo, debole e umiliante vicolo d’uscita, un eventuale testo italiano facoltativo (a beneficio non si sa di chi…).

L’italiano non merita di essere tollerato in nome di una concessione benevola. Semmai dovrebbe diventare obbligatorio anche per coloro che altezzosamente ritengono di poterne fare a meno. Tutti accettiamo di scrivere il testo inglese per favorire il confronto internazionale e per estendere la rosa dei possibili valutatori. Dunque tutti accettino anche di rendere pubblico il loro testo nella lingua ufficiale della nazione, perché possa essere letto da qualunque cittadino italiano desideri farlo, in ossequio a un principio di trasparenza nell’uso di pubbliche risorse. Questa è vera parità linguistica, senza la quale la nostra lingua riceve un danno, proprio nell’anno di Dante.


Aggiornamento del 12 gennaio 2021:

Il 10 gennaio, dopo la pubblicazione della mia lettera nel sito della Crusca, è giunta una prima risposta del Ministro Manfredi, seppure in forma indiretta, nel corso di un'intervista concessa a "la Repubblica" (p. 4 dell'edizione di Napoli). L'intervista prende le mosse dalle argomentazioni dello scienziato Andrea Ballabio, che ha criticato la distribuzione dei finanziamenti ministeriali per la ricerca, i quali avverrebbero aggirando le norme e facendosi beffe della meritocrazia. 

Riproduciamo qui una parte dell'articolo, quella in cui ricorre la menzione dell'Accademia della Crusca:


Premettiamo che la divisione dei finanziamenti PRIN non è problema in cui l'Accademia della Crusca sia intervenuta o abbia intenzione di intervenire in qualunque modo, essendo questione estranea alle nostre competenze istituzionali. La risposta del Ministro mostra tuttavia un totale fraintendimento degli argomenti linguistici di nostra specifica competenza:

  1. Nessuno, tanto meno l'Accademia della Crusca, ha affermato che non si debbano stilare i progetti in lingua inglese, se ciò è ritenuto utile per accrescere la lista dei possibili revisori, purché competenti (e non solo selezionati in quanto anglofoni). Abbiamo però affermato che deve esistere un testo ufficiale anche in italiano, non facoltativo, indipendentemente dalla scelta dei revisori ufficiali dei progetti, di cui il Ministero si farà carico secondo i criteri che riterrà più opportuni.
  2. Se la comunità scientifica deve essere sottoposta a un controllo rigoroso, poiché (stando a quanto sembra ammettere il Ministro) ha dato prova di comportamenti discutibili (a tal punto che, pur dopo l'istituzione di ANVUR e dopo una politica di severi controlli già condotti in questi anni, emerge l'ipotesi di rendere l'osservazione ancora più stringente, affidando le scelte in misura maggiore o totale a giudici e revisori non-italiani), allora ci sono ragioni in più perché esista anche un testo ufficiale italiano, diffuso largamente e accessibile, in modo che tutti i cittadini italiani lo possano leggere senza equivoci e senza impacci.
  3. Il dovere della trasparenza e della condivisione, collegato appunto alla presenza di un testo bilingue, va difeso proprio per le ragioni invocate dal Ministro, anche se il Ministro non pare condividere questa nostra deduzione.
  4. I sospetti di parzialità nell'assegnazione dei PRIN che si ricavano dall'articolo della "Repubblica" (giusti o sbagliati, veri o artificiosi, disinteressati o interessati che siano), riguardano le persone e i loro comportamenti. Non ci pare giusto ribaltarli sulla lingua italiana, che è del tutto innocente. Non è giusto lasciar credere che l'eliminazione dell'italiano sia un contributo valido, anzi la via maestra per la moralizzazione della ricerca universitaria.

Allegati

Paolo Di Stefano parla dell'intervento di Marazzini sulle pagine del "Corriere della Sera":

Interviene sul tema anche il giurista Luigi Labruna sulla rubrica personale "Refole", citando il Tema di Marazzini e sottolineando le difficoltà dell'equiparazione dei criteri e strumenti valutativi per discipline umanistiche e scienze dure, e i rischi legati all'adozione indiscriminata dell'inglese come lingua primaria di scrittura dei PRIN. 

  • Luigi Labruna, Caro Manfredi la ricerca si fa anche in italiano, "la Repubblica Napoli", 25 gennaio 2021, p. 1

Sul sito "ROARS - Return on Academic Research and School", Nuccio Ordine cita la mobilitazione della Crusca sulla questione della ricerca in italiano e la lettera aperta del presidente Marazzini al ministro Manfredi:

Segnaliamo anche l'intervento del filosofo Fabio Minazzi, che sul quotidiano "La Prealpina" riflette sul problema della marginalizzazione dell'italiano nella ricerca universitaria, citando il Tema di Marazzini:

Claudio Marazzini
31 gennaio 2021 - 00:00

Commento di chiusura di Claudio Marazzini:

Diversi giornali (si vedano i collegamenti posti in coda al mio intervento) hanno ripreso il Tema, ribadendo le posizioni critiche nei confronti di un provvedimento ministeriale indifendibile. Dico indifendibile, perché l’unico che ha provato a difenderlo, per quanto ne so, è stato Antonio Gurrado sul “Foglio” del 14 gennaio (https://www.ilfoglio.it/bandiera-bianca/2021/01/14/news/usare-l-inglese-e-il-miglior-contrappeso-all-italiano-astratto-delle-universita—1682948/). Devo dire che Gurrado, bontà sua, se l’è presa più con il bravo Paolo Di Stefano del “Corriere della Sera” che con la Crusca e il suo presidente. Vedete se vi convincono le sue tesi: 

"È vero [quello che dice Marazzini, sul rischio di impoverimento dell’italiano]; ma è vero anche che l’inglese è un grande setaccio. Non ricordo chi proponesse di disfarci delle contraddizioni e delle ambiguità della legislazione italiana traducendola integralmente in inglese: fate quest’esercizio, non dico anglicizzare i passi dei Dpcm che parlano di “congiunti” o di “rime buccali” ma già solo l’articolo 1 della Costituzione. Vedrete che, dopo aver vanamente girato le parole fra le mani, deciderete di far cadere quelle che esprimono concetti oscuri o astrusi (“a democratic republic based on work”) accorgendovi che, alla fine, sono superflue."

Ripuliamo dunque la Costituzione secondo questo suggerimento, che passiamo senza commenti al giudizio del nuovo presidente della Suprema Corte, il magistrato Giancarlo Coraggio. Gurrado prosegue:

"Un problema della ricerca in Italia è che - mentre nel mondo anglosassone prima viene definito un progetto e poi si cerca il finanziamento adatto - qui sovente si cerca di mettere insieme progetti ad hoc per rispondere a bandi per finanziamenti, quindi non di rado (specie nel settore umanistico) si fa leva su giri di parole che vogliono dire tutto e niente, per tenersi sul vago e sperare in bene. In inglese non si può, o quanto meno è molto più difficile, e i rischi che il trucchetto venga scoperto sono molto più elevati. Infine, e soprattutto, per redigere un articolato e ambizioso progetto di ricerca in inglese è necessario sapere l’inglese. Sarebbe già qualcosa."

Finalmente grazie a Gurrado (nel silenzio del Ministro) abbiamo capito perché è stato reso obbligatorio l’inglese delle domande PRIN. C’è però un particolare che a Gurrado è sfuggito: l’inglese è obbligatorio nelle domande PRIN fin dal 1998, con la sola l’interruzione del PRIN 2015 (Ministra Giannini). E allora come mai questa lingua salvifica, in uso obbligatorio già da 23 anni per le domande PRIN, non ha risolto i problemi etici individuati da Gurrado? Forse perché accanto ad essa c’era rimasto un residuale testo italiano, almeno fino al bando 2017 di Valeria Fedeli, quando finalmente fu rimosso? Se è così, però, dobbiamo constatare che nemmeno abolendo l’italiano, come già si è fatto nel 2017, i problemi etici sono stati superati. Tutto il presunto malcostume descritto da Gurrado è riuscito a sopravvivere perfettamente calandosi nei testi inglesi presentati dagli italiani candidati al PRIN. Allora, facendo i conti con il passato e rispettando l’intuizione di Gurrado, potremmo immaginare una soluzione diversa: cioè che il confronto tra i due testi, quello salvifico in inglese e quello traditore e verboso nella lingua nazionale, potrebbe essere utile per smascherare gli ingannatori che diguazzano nella vaga ed equivoca natura della lingua italiana. Però, per questo, ci vogliono due testi, uno inglese, ma anche uno italiano. Dunque anche Gurrado, alla fin fine, potrebbe forse trovarsi al mio fianco, magari paladino della reintroduzione dell’italiano obbligatorio.

Tornando seri: con quale dose di qualunquismo si possono metter sotto accusa in questo modo i docenti che lavorano nei nostri atenei? Con quale sensibilità si può attribuire alla lingua difetti che con la lingua nulla hanno che fare? Come non capire che non solo il confronto con l’inglese, ma qualunque esperimento di traduzione, con qualunque lingua, è sempre un banco di prova per verificare la forza e coerenza dei contenuti di un testo? Ma lasciamoci alle spalle un dibattito scalcinato che semmai ha mostrato la piena validità delle tesi espresse nel mio Tema del mese.

Di fronte a un problema di tale gravità (perché le spiritose invenzioni di Gurrado mica sono solo sue: c’è un sacco di gente che le condivide, ahimè, con analoga profondità di ragionamento), alcuni tra i nostri “sostenitori” scambiano la questione fondamentale, la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura universitaria, con le sorti di un forestierismo: il lockdown. Quel forestierismo è antipatico anche a me, ma non è certo la causa dei nostri mali. È semplicemente un sintomo del comportamento degli italiani, i quali, con un vezzo di anglofilia per loro non inconsueto, hanno voluto ben distinguersi dai francesi e dagli spagnoli che dell’anglismo non hanno avuto bisogno. Spagnoli e francesi, per parte loro, si sono accontentati di parole locali come confinamiento, e confinement. Ma si sa: gli italiani sono internazionali. O forse gli italiani hanno fatto tesoro delle idee di Gurrado, e hanno capito che lockdown, come tutte le parole inglesi, porta in sé una ventata di illuminante chiarezza, mentre una parola italiana come “confinamento” avrebbe prodotto un effetto di verbosità traditrice, più o meno come è capitato ai “congiunti” e alle “rime buccali” del DPCM, che non sono frutto di un maldestro modo di scrivere, ma sono un inevitabile effetto della lingua italiana, di per sé perversa, come dimostra la Costituzione con la “repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Molti tra coloro che parteggiano per l’emarginazione dell’italiano dai luoghi che contano, molti avversari dell’italiano a cui dedico volentieri le parole di Dante nel Convivio I, 11 (e non solo quelle che ho messo in esergo, ma anche le altre ben più dure che ho omesso), sono pur disposti a condurre una battaglia contro parole inglesi che attentano all’ecologia della nostra lingua. Io sono tra i fondatori di Incipit e milito nella squadra, ma vi garantisco che la battaglia per l’italiano nel PRIN è più importante. Per questo, nel ringraziare tutti i lettori che si sono dimostrati solidali, sottolineo in modo speciale l’importanza dell’adesione del fisico Enzo De Sanctis, intervenuto il 6 gennaio. Abbiamo bisogno di scienziati che, come lui, facciano pesare il loro autorevole parere.

Rispondi

Agostino Bresciani
25 gennaio 2021 - 00:00
Ringrazio molto il Prof. Marazzini per il suo impegno ma mi trovo d'accordo anche con chi sostiene che l'Accademia della Crusca dovrebbe essere più attiva e capillare nel sensibilizzare gli italiani sul tema e nel proporre (senza imporre) traduzioni italiane dei nuovi anglicismi (pensiamo ad esempio a quelli che si sono diffusi durante la pandemia, come "lockdown" e "smart working"). Al giorno d'oggi i mezzi di comunicazione sono tanti, pensiamo innanzitutto alle piattaforme sociali. Per fare un esempio, un vostro post in cui si dice in maniera chiara, anche a giornali e istituzioni, che "smart working" ha la sua traduzione italiana in "lavoro agile" verrebbe senz'altro più considerato rispetto a quello di un cittadino comune.

Rispondi

Enrico Garino
25 gennaio 2021 - 00:00
Trovo veramente indigesto l'uso se non l'abuso del termine lockdown .Eppure c'è un certo compiacimento da parte di molti ns. giornalisti politici e gente comune di utilizzarlo quasi servisse a darsi un tono e a mitigare i provvedimenti che il termine sottende.Se si cercasse di usarlo il meno possibile !? Anche per non dare sempre l'impressione di essere un popolo affetto da inferiorità linguistica acuta .

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Risposta
Agostino Bresciani
26 gennaio 2021 - 00:00
Nella mia risposta precedente c'è un refuso, la frase corretta è: Perché continuano fastidiosamente ad utilizzare "lockdown"?
Risposta
Agostino Bresciani
25 gennaio 2021 - 00:00
In francese e in spagnolo, lingue romanze come la nostra, "lockdown" si dice rispettivamente "confinement" e "confinamiento". In italiano? "Lockdown". Questo purtroppo fa capire molte cose. Perché la traduzione italiana "confinamento" non è usata? I mezzi di comunicazione la conoscono? Sono stati adeguatamente informati della sua esistenza? Perché continuano fastidiosamente ad utilizzarla? A forza di leggerlo sui giornali e di sentirlo in televisione anche mia zia ottantenne ha imparato a dire "lockdown" e ripete questa parola non sapendo che può essere tradotta in italiano. Così avviene per la maggior parte dei nuovi anglicismi.
Daniel Panizza
13 gennaio 2021 - 00:00
Tutto giusto... ma vorrei tanto che l'Accademia della Crusca trovasse il modo di arrivare, con più efficacia, direttamente agli italiani. Che mediamente non vengono certo a leggere il tema del mese su questo sito. E che rischiano di vedere l'Accademia come una organizzazione passatista e vagamente elitaria che ostacola la diffusione dell'inglese.

Rispondi

Risposta
Maurizio Canto
24 gennaio 2021 - 00:00
Concordo con il commento di Daniel Panizza e vorrei rispondere al dott. Marazzini - che senz'altro ringrazio per le sue parole chiare in difesa della nostra lingua - che "qualcosa di più si può fare". Certamente l'Accademia potrebbe potenziare il lavoro del gruppo Incipit, che ha prodotto una quindicina di comunicati in quasi sei anni di lavoro, nei quali intanto centinaia di anglicismi sono entrati nel nostro lessico. Credo che questo si possa fare senza grossi costi. Poi, avendo invece qualche risorsa in più (difficile da trovare, me ne rendo conto) si potrebbe investire in comunicazione. Ci sono blog e siti privati come Diciamolo in italiano e Italofonia .info che stanno lanciando piccole campagne sulle reti sociali autofinanziate, con piccoli video simpatici sul tema dell'abuso di inglese e anglicismi. L'Accademia avrebbe senz'altro più mezzi e prestigio per farlo. Questa vuole essere una critica costruttiva, che faccio manifestando tutta la mia stima verso di lei e verso il lavoro di voi tutti. Grazie
Risposta
Claudio Marazzini
21 gennaio 2021 - 00:00
Già. E che cosa dovremmo fare più di quanto facciamo ora, per raggiungere tale obiettivo? Claudio Marazzini
Fabrizio Giovannelli
12 gennaio 2021 - 00:00
Sarei felice di aderire ad una petizione pubblica

Rispondi

Vincenzo Martini
10 gennaio 2021 - 00:00
Caro Presidente, volevo ringraziarLa per l'appassionata e attenta difesa della nostra bellissima lingua. Non è per niente un'impresa facile, complicata dal fatto che la stragrande maggioranza degli enti e delle amministrazioni pubbliche non fanno niente per arginare l'alluvione dei termini stranieri, soprattutto inglesi. Con gravi ricadute sul nostro sistema di comunicazione istituzionale, i cui messaggi risultano spesso incomprensibili ai più. Aveva ben ragione, mi permetta di ricordarlo, il prof. Tullio De Mauro quando diceva che "Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. E' un maleducato se parla in privato da privato. E' qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto del popolo. Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire".

Rispondi

DANIELA TESTA
08 gennaio 2021 - 00:00
Anche io mi trovo assolutamente d'accordo con quanto affermato nella lettera inviata al Ministro e con quanto scritto a commento nell'articolo qui presentato. Anche io evito di discutere quelli che possono essere i motivi del preferire la lingua inglese al posto della lingua italiana ma anche io mi trovo a dover ripetere che tali scelte da parte del Ministero siano soltanto da condannare. Vorrei però aggiungere che il problema della volontà di imporre la lingua inglese non è nuovo e non è solo legato all'università ma più generalmente alla scuola italiana nel suo complesso. I danni di tale atteggiamento sono gravissimi in quanto una lingua rappresenta i valori, la storia di una nazione nonché la possibilità per i cittadini di quella nazione di accedere alla cultura stessa; nel caso dell'italiano i valori sono anche quelli di una cultura grande ed importante che non può essere cancellata da scelte, lo ripeto, senz'altro motivate ma pure molto discutibili.

Rispondi

antonio zoppetti
08 gennaio 2021 - 00:00
Mi pare che la nostra classe politica non comprenda l'importanza della promozione e della tutela del nostro patrimonio linguistico, e che in Italia non esista alcuna politica linguistica, al contrario di quanto accade in Francia, Svizzera, Islanda e moltissimi altri Paesi. Questo vuoto davanti all'italiano è invece paradossalmente affiancato da un'attenzione per diffondere e difendere l'inglese. Lo si vede nel ricorso agli anglicismi istituzionali e nell'anglicizzazione del linguaggio dei nostri politici, dalla recente introduzione del cashback di Stato per favorire il cashless (riprendo le parole del nostro presidente del consiglio – detto più frequentemente premier – nella sua conferenza stampa televisiva) sino ai vari act e tax al posto di leggi e tasse, e innumerevoli simili esempi. Queste scelte lessicali anglomani sono la spia di un sentimento profondo che sposta l'attenzione dall'italiano all'inglese in tanti ambiti strategici. Non c'è solo la questione del Prin qui denunciata. C'è per esempio la vicenda dell'insegnamento in inglese nell'università – e l'estromissione dell'italiano – legata ai corsi e ricorsi del Politecnico di Milano. C'è la riforma Madia del 2017, passata sotto silenzio, che ha sostituito l'obbligo di conoscere una "lingua straniera" nei concorsi pubblici con la dicitura "lingua inglese". In questo modo l'inglese è diventato un requisito obbligatorio per entrare nella pubblica amministrazione indipendentemente dai ruoli ricoperti, e si sancisce la superiorità di questa lingua su tutte le altre. È un passaggio che ci conduce dal plurilinguismo al globalese, in un disegno per cui tutti i Paesi devono essere condotti sulla via del bilinguismo, dove l'inglese è la lingua internazionale, come fosse una lingua neutrale e non la lingua madre di popoli dominanti. Spesso l'inglese internazionale è paragonato all'uso storico del latino, ma questo confronto non va fatto con il latino dei teologi medievali o di una parte degli scienziati del passato – quando il latino non era la lingua madre di nessuno – bensì con quello della Roma imperiale, che imponeva la propria lingua ai popoli dominati. Anche l'estromissione dell'italiano come lingua del lavoro in Europa è avvenuta senza che i nostri politici difendessero la nostra lingua, benché l'Europa nasca all'insegna del plurilinguismo come un valore e una ricchezza da promuovere, in cui tutti i cittadini europei avrebbero in teoria il DIRITTO di rivolgersi alle istituzioni nella propria lingua, e non inglese. Per citare un linguista come Jürgen Trabant, questa imposizione dell'inglese globale sta portando a una nuova forma di diglossia neomedievale che divide i ceti alti da quelli bassi che restano esclusi. Sottoscrivo le parole di Marazzini e lo ringrazio per questa presa di posizione netta e ineccepibile. Mi auguro che le celebrazioni dantesche del 2021 non diventino una commemorazione dell'italiano da mettere in un museo, ma un'occasione per promuoverlo come lingua viva e per tutelarlo anche dalle minacce dell'inglese. Mi auguro che l'uscita del Regno Unito dall'Europa possa aprire un dibattito per ripristinare l'italiano tra le lingue di lavoro e per favorire il plurilinguismo e non la “dittatura dell'inglese”. antonio zoppetti

Rispondi

Armando Albini
06 gennaio 2021 - 00:00
Totalmente d’accordo con Claudio Marazzini

Rispondi

Renato Sollima
06 gennaio 2021 - 00:00
Nel secolo scorso gli americani cominciarono a produrre un dispositivo elettronico che si giovava anche della esperienza precedente della Olivetti che aveva creato il "calcolatore". Gli americani chiamarono il loro prodotto "computer" (termine assai improprio) a cui gli spagnoli e i francesi fecero corrispondere rispettivamente le parole "ordenador" e "ordinateur". Quando gli italiani, provinciali e servili, cominciarono a rinunciare al termine "elaboratore" (molto appropriato) a favore di computer era compito dell'Accademia della Crusca intervenire in modo deciso per bloccare sul nascere una deriva ormai inarrestabile.

Rispondi

Enzo de Sanctis
06 gennaio 2021 - 00:00
Condivido pienamente questa lettera. Sono un fisico in pensione che ha svolto lavoro di ricerca in campo internazionale. Ho partecipato a concorsi PRIN e ottenuto finanziamenti per ricerche. Sono anche stato per molti anni un Esperto valutatore di progetto PRIN. Nella mia attività di ricerca ho sempre cercato di usare termini italiani tutte le volte che era possibile. Per esperienza personale posso affermare che è possibile discorrere in italiano di Fisica

Rispondi

Risposta
Claudio Marazzini
21 gennaio 2021 - 00:00
Vorrei mettermi in contatto con il fisico Enzo De Sanctis che si è dichiarato qui favorevole alle mie affermazioni sull'uso dell'italiano; infatti ritengo che la battaglia per la salvezza dell'italiano passi attraverso il consenso degli scienziati: dobbiamo allearci con gli uomini di scienza disponibili e di buona volontà, che non la pensano come i loro colleghi radicalmente avversi alla nostra lingua; dobbiamo verificare se su questo punto esista una sorta di rottura generazionale; se c'è tale rottura, come pare, dobbiamo tentare di capirne le ragioni per arginarla; dobbiamo raccogliere i nomi di coloro, uomini di scienza, che sono disposti ad affiancarci in questa campagna. Claudio Marazzini
Marco Toselli
06 gennaio 2021 - 00:00
Assolutamente d'accordo con la lettera. È solo pigrizia non usare l'italiano. Io ho vissuto 10 anni in Inghilterra e non userei mai parole inglesi che hanno una pronuncia e un ritmo diverso e che rovinerebbero il suono della conversazione italiana. Ad esempio "task force" con l'accrocchio di tre consonanti che mai si combinerebbero in italiano distrugge la sonorità, così come la "r" di force.

Rispondi

Gaetano fusco
06 gennaio 2021 - 00:00
Qualsiasi sia la motivazione che sta dietro ad una scelta di una lingua piuttosto che un'altra, niente può eliminare l'adozione della propria lingua. L'italiano deve restare la prima lingua degli Italiani, la sua storia lo impone.

Rispondi

Luciano Romagnoli
06 gennaio 2021 - 00:00
In queso momento di riflessione sarebbe opportuno capire che la normalità a cui aspiriamo di tornare non è normale. Non è normale la distribuzione della ricchezza e della cultura. E intendo cultura anche l’accesso alle fonti per i giovani e per gli anziani. Oggi grazie alla rivoluzione di internet, pari a quella della diffusione della stampa di 600 anni fa e’ possibile avere accesso al sapere come mai l’umanità ha avuto a portata di mano. Ma occorre un metodo e sopratutto buoni maestri. Questo può essere il nuovo business per un paese come stai il nostro, culla dell’Umanesimo di ieri e di domani. Insomma ripartiamo dall’uomo e dalla cultura.

Rispondi

Annalisa Asticcioli
06 gennaio 2021 - 00:00
Stiamo vivendo un’era dove le notizie corrono per assurdo, ancor prima che i fatti accadano. C’è la convinzione che per essere più immediati e concisi si debba ricorrere a termini tecnici e globalizzati che sminuiscono le proprie identità culturali. Una Nazione e il suo popolo si riconoscono per il loro patrimonio socio-culturale e la storia del nostro Paese, intensa e ultra millenaria, ci è stata tramandata proprio grazie alla nostra meravigliosa lingua italiana, ricca di terminologie e aforismi in grado di far comprendere ogni fatto o pensiero.

Rispondi

Risposta
Luciano Murgia
20 gennaio 2021 - 00:00
Complimenti, un commento perfetto.
Maurizio Giangreco
06 gennaio 2021 - 00:00
Personalmente trovo inconcepibile che qualunque istituzione della Repubblica Italiana non privilegi l'italiano in ogni comunicazione. Aggiungo una mia personale esperienza: per lavoro mi trovo spesso ad usare l'inglese in un contesto internazionale e difficilmente certe espressioni inglesi utilizzate in Italia sono utilizzate raramente nell'inglese corrente, l'uso ossessivo di "task force" o del verbo "to schedule" lo riscontro solo in Italia. P.S. il sito dell'Accademia della Crusca mi ricorda che "ci sono errori nel form"

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Lorenzo Tomasin

Marco Polo, l’italiano reso famoso… dalle traduzioni

L'accademico Lorenzo Tomasin parla di incontri tra lingue e tra culture, riflettendo sulla storia e il ruolo del Milione di Marco Polo.

Paolo D’Achille

Riflessioni su alcune particolarità dell’italiano di oggi: il cambiamento non investe solo la lingua, ma anche la lingua

"Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento… e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, che sono avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa": Paolo DAchille invita a riflettere su alcuni aspetti dell'italiano contemporaneo.

Annalisa Nesi

In margine a: Un’estate tra le voci dialettali nelle carte dell’AIS

Prendendo spunto dalla rubrica che l'Accademia ha creato per i profili social durante l'estate del 2023, l'Accademica Annalisa Nesi invita a discutere del nostro rapporto con il dialetto. 

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