Cari tutti

di Andrea Iacona

Questo articolo presenta alcune riflessioni metodologiche che vertono sulle proposte di riforma linguistica motivate da ragioni politiche, in particolare sulle proposte che mirano a rendere il linguaggio meno sessista. Per illustrare i punti centrali del discorso userò esempi ampiamente dibattuti, dedicando particolare attenzione al caso di cari tutti e delle sue possibili alternative. Ma l’interesse dell’articolo, al di là delle singole proposte trattate, è rivolto principalmente verso i presupposti teorici in base ai quali tali proposte possono essere giustificate. Spesso, nelle discussioni intorno a espressioni specifiche si annidano divergenze sostanziali a livello metodologico, dunque una chiarificazione di queste divergenze può costituire un importante passo in avanti nel dibattito sul sessismo linguistico.

Iniziamo con un dilemma politico che si presenta a chiunque riconosca che un gruppo di persone X è discriminato rispetto a un altro gruppo di persone Y e intenda porre rimedio a questa ingiustizia. In una situazione del genere si possono intraprendere due corsi d’azione diversi. Una opzione – che chiameremo discriminazione positiva – consiste nell’attuare misure mirate a “compensare” X dei torti subiti: si cerca di fare in modo che, per un periodo di tempo sufficientemente lungo, ai membri di X sia garantito un accesso facilitato a beni, cariche, o posizioni che prima risultavano per loro difficili da conseguire, sperando che la proporzione numerica tra X e Y negli ambiti rilevanti vari a favore di X, innescando così un processo virtuoso che conduce all’eguaglianza. Chi simpatizza per questa opzione sa che la discriminazione positiva è pur sempre una discriminazione, e che i vantaggi accordati a X danneggiano Y. Ma ritiene che le tante ingiustizie “locali” compiute avvantaggiando X saranno poi compensate dagli effetti a lungo termine, che produrranno una maggiore giustizia “globale” in un futuro non troppo lontano.

Un’altra opzione – che chiameremo anti-discriminazione – consiste nel cercare, per quanto possibile, di rendere il sistema di assegnazione di beni, cariche o posizioni imparziale rispetto alle differenze tra X e Y: si cerca di sostituire le procedure che discriminano i membri di X con procedure che non li discriminano, garantendo così la parità tra X e Y. Ovviamente, la proporzione numerica tra X e Y negli ambiti rilevanti non cambierà con la stessa rapidità che si ottiene con la discriminazione positiva. Ma chi preferisce questo secondo corso d’azione ritiene essenziale non sostituire le vecchie discriminazioni con nuove discriminazioni, quindi non accetta le ingiustizie locali generate dal primo metodo. La sua speranza è che il sistema migliori attraverso un lento progresso di piccoli passi ciascuno dei quali è studiato per durare per sempre.

Quale delle due opzioni sia preferibile è una questione notoriamente controversa, anche perché spesso non c’è accordo sui parametri che dovrebbero essere adottati per valutare i pro e i contro dell’una o dell’altra opzione. In ogni caso, essendo una questione politica, si può dirimere solo mediante argomenti politici, quindi non avrebbe senso affrontarla qui. L’unico elemento da tenere presente per i nostri scopi è che l’alternativa tra discriminazione positiva e anti-discriminazione si riproduce nell’ambito delle proposte di riforma linguistica. Si pensi per esempio al pronome inglese he, che fino a pochi anni fa era usato per riferirsi in modo generico a una persona qualsiasi. Da un po’ di tempo a questa parte, nell’inglese scritto l’uso di he è stato drasticamente ridotto per limitarne le implicazioni sessiste. Alcuni hanno iniziato a scrivere sistematicamente she al posto di he, in linea con la prima opzione, mentre altri hanno optato per un’espressione neutra, come one, they, o a person, in linea con la seconda.

In questo articolo mi concentrerò sulla seconda opzione, per il semplice fatto che la preferisco. Coerentemente con l’idea dell’anti-discriminazione, ritengo che il modo migliore di rendere il linguaggio più inclusivo sia quello di sostituire espressioni che hanno implicazioni sessiste con espressioni che non ne hanno, mediante interventi di revisione che tengano conto della specificità della lingua e siano pensati per durare nel tempo. Ovviamente, chi predilige la prima opzione troverà punti di disaccordo in quanto segue. Ma indipendentemente dalle scelte politiche di fondo, resta comunque utile articolare in modo chiaro ed esplicito un’ipotesi metodologica, ed è appunto quello che cercherò di fare.


Una ipotesi metodologica

Le proposte di uso non sessista della lingua italiana emerse negli ultimi anni sono molteplici, e spesso esprimono posizioni decisamente controverse. In alcuni casi non c’è accordo sul problema che si intende superare, mentre in altri ci sono opinioni diverse su come dovrebbe essere superato. Come si può giudicare quali proposte di riforma linguistica meritano di essere sostenute – eventualmete promuovendole attraverso canali istituzionali – nella speranza che diventino una parte consolidata dell’italiano? Per rispondere a questa domanda, che è essenzialmente normativa, occorre definire un criterio di adeguatezza che abbia valenza generale.

Il criterio che vorrei suggerire consiste nella congiunzione di tre condizioni la cui ragionevolezza mi sembra ovvia, direi al limite della banalità. Innanzitutto, le espressioni – o usi di espressioni – che si eliminano devono avere una carica discriminatoria, cioè devono avere qualche caratteristica che le rende offensive per certe persone in virtù della loro identità o orientamento sessuale. Userò l’aggettivo "non-neutrale" per indicare questa proprietà. In secondo luogo, le espressioni – o usi di espressioni – che si sostituiscono alle prime devono essere prive di tale carica. Userò l’aggettivo "neutrale" per indicare questa proprietà. Infine, l’operazione di sostituzione deve avere buone probabilità di riuscita, cioè non deve richiedere cambiamenti su larga scala che rischiano di non poter essere attuati.

Il criterio può dunque essere formulato come segue, per due espressioni qualsiasi e e e':

(A) e’ è una alternativa adeguata a e se e solo se (i) e è non-neutrale, (ii) e′ è neutrale, e (iii) la sostituzione di e con e′ è sufficientemente realistica.

La distinzione tra espressioni neutrali ed espressioni non-neutrali invocata in (i) e (ii) solleva un problema epistemologico: chi stabilisce se un’espressione è neutrale? Da un lato, la distinzione concerne in modo essenziale le intuizioni dei parlanti, visto che la carica discriminatoria di un’espressione si manifesta attraverso le reazioni che provoca nei parlanti. Dall’altro, tuttavia, le intuizioni dei parlanti non forniscono indicazioni chiare. In primo luogo, non si tratta semplicemente di una questione di numeri, perché non tutti i parlanti sono ugualmente autorevoli: tipicamente, se un gruppo di persone X è discriminato rispetto a un altro gruppo di persone Y, le opinioni dei membri di X sono ritenute più importanti rispetto a quelle dei membri di Y; inoltre, all’interno di X possono esserci diversi gradi di autorevolezza, dovuti al ruolo sociale, al livello di istruzione, e così via. In secondo luogo, le reazioni soggettive dei parlanti non sembrano sufficienti a determinare la non-neutralità di un’espressione, se non trovano fondamento in qualche fatto semantico oggettivo. Per esempio, l’intuizione diffusa sulle implicazioni sessiste dell’uso generico del pronome he si fonda sul fatto che he, in virtù del suo significato, denota una persona di sesso maschile. Non c’è invece un’intuizione diffusa sulle implicazioni sessiste della parola they, che non ha una proprietà semantica analoga. E se una persona si sentisse offesa dall’uso di they, sarebbe naturale dirle che fa male a sentirsi offesa.

Nonostante queste difficoltà, ci sono casi chiari di neutralità e casi chiari di non-neutralità. Per esempio, one è un’espressione che permette di riferirsi a una persona qualsiasi in modo del tutto neutrale, mentre he, come si è visto, non ha questa caratteristica. Quindi, la distinzione tra espressioni neutrali ed espressioni non-neutrali è perfettamente sensata, e lo stesso vale per (A). Di fatto l’esempio di he/one si presta bene a illustrare la plausibilità di (A) come criterio di adeguatezza: one è un’alternativa adeguata a he perché (i)-(iii) sono soddisfatte, vale a dire, he è non-neutrale, one è neutrale, e la sostituzione di he con one è sufficientemente realistica. Il soddisfacimento di (iii) si deve sostanzialmente al fatto che one esiste già nel vocabolario inglese, quindi per realizzare il cambiamento desiderato è sufficiente generalizzare un uso linguistico consolidato.

Per afferrare meglio (A) è utile considerare tre diversi tipi di casi in cui (i)- (iii) non sono soddisfatte. Il primo è quello in cui non vale (i). Per esempio, se invece di he si volesse eliminare un’espressione neutrale, come one, si avrebbe un caso del genere. Il secondo è quello in cui non vale (ii). Per esempio, la disgiunzione he or she non è una soluzione ideale in questo senso, sia perché introduce un problema di ordine (he precede she), sia perché non tiene conto del fatto che alcune persone potrebbero non riconoscersi nella distinzione binaria tra maschio e femmina, o tra uomo e donna. Considerazioni analoghe valgono per she or he, che differisce da he or she solo in quanto discrimina in senso positivo. Il terzo è quello in cui non vale (iii). Per esempio, se si volesse sostituire he con il simbolo ↑, poi sarebbe improbabile una diffusione su larga scala di questa soluzione, non essendo ↑ una lettera o parola inglese già in uso[1].


La distinzione marcato/non marcato

Per capire come il criterio di adeguatezza presentato sopra può essere applicato alla lingua italiana occorre tenere presente alcuni fatti che la riguardano. La lingua italiana è regolata da una divisione netta tra due generi grammaticali, maschile e femminile, che non coincide con la distinzione tra esseri animati di sesso maschile e femminile. Mentre tutti i nomi hanno un tratto morfosintattico di genere, solo alcuni nomi che designano esseri animati, come padre e madre, hanno in aggiunta un tratto semantico di sesso. Altri, come monarca o spia, sono usati per riferirsi a esseri animati di entrambi i sessi.

In linguistica si adotta la distinzione tra marcato e non marcato, che risale a Roman Jakobson, per indicare la differenza tra espressioni che designano unicamente esseri animati di un dato sesso e espressioni che invece possono designare esseri animati di entrambi i sessi (Signe zéro, in Mélanges de linguistique offerts á Charles Bally, Georg et cie, 1939, pp. 143-152.). Questa distinzione può essere illustrata con un esempio: il nome leone è non marcato nel senso che può essere usato sia per riferirsi a un esemplare qualsiasi della specie panthera leo, sia per riferirsi a un esemplare di sesso maschile. Invece, il termine leonessa è marcato perché si riferisce esclusivamente a un esemplare di sesso femminile. Quando una coppia di elementi lessicali maschili e femminili si comporta in questo modo, nel senso che il maschile è usato in modo non marcato mentre il femminile è usato in modo marcato, allora il primo elemento può essere considerato neutrale nel senso che ci interessa.

Tuttavia, la distinzione tra marcato e non marcato è più complessa di quanto potrebbe sembrare, e non si può dare per scontato che l’uso del maschile sia sempre neutrale in quanto non marcato. In particolare, come osserva Anna M. Thornton (“Designare le donne: preferenze, raccomandazioni e grammatica”, in Genere e linguaggio. Franco Angeli, 2016, pp. 15–33.), ci sono differenze significative tra diverse coppie di elementi lessicali maschili e femminili rispetto alla possibilità di usare il maschile come non marcato, e parlanti diversi possono avere intuizioni diverse sulla questione se un certo nome maschile abbia o non abbia un tratto semantico di sesso.3

Questo elemento di indeterminatezza emerge in modo chiaro in alcune discussioni recenti sull’uso di nomi maschili che indicano cariche o professioni, come ministro, rettore, professore. Alcuni ritengono appropriato usare questi nomi tanto per gli uomini quanto per le donne, mentre altri ritengono più corretto designare le donne mediante i corrispettivi femminili, come ministra, rettrice, professoressa (Questi due orientamenti sono descritti in Anna L. Lepschy, Giulio Lepschy e Helena Sanson, A proposito di -essa, in LAccademia della Crusca per Giovanni Nencioni. Le Lettere, pp. 397-409, 2002, pp. 398-399. Il secondo è difeso in Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987, Anna M. Thornton, Designare le donne, in Mi fai male... A cura di S. Regazzoni G. Giusti. Cafoscarina, pp. 115–133. Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per luso dellitaliano. GiULiA giornaliste, 2014.) In questo caso, secondo Thornton (Designare le donne: preferenze, raccomandazioni e grammatica, cit., pp. 22-24), le intuizioni dei parlanti tendono a divergere sulla questione se i nomi maschili considerati siano non marcati: i membri del primo gruppo tendono a percepire questi nomi come non marcati, mentre i membri del secondo tendono a percepirli come nomi che hanno implicazioni semantiche relative al sesso della persona che ricopre il ruolo designato.

Qui torniamo al problema epistemologico sollevato nel paragrafo 2: chi stabilisce se un’espressione è neutrale? Siccome non c’è una risposta chiara alla domanda se ministro, rettore, professore siano nomi non marcati, la questione se debbano essere usati per riferirsi alle donne è controversa. Ma almeno una cosa è certa, dato quanto è stato detto sopra: se si trattasse di espressioni non neutrali, allora sostituirle con i loro corrispettivi femminili sarebbe corretto in base ad (A), perché in tal caso (i)-(iii) risulterebbero soddisfatte.

Un altro caso che merita attenzione è quello dei nomi, come presidente, testimone, dichiarante, che differiscono dai nomi considerati sopra in quanto possono essere associati con l’articolo femminile senza produrre palesi effetti di non-grammaticalità (la presidente, la testimone, la dichiarante). Anche in questo caso le intuizioni dei parlanti possono divergere, perché c’è una tendenza diffusa a usare questi nomi come maschili non marcati, associandoli al solo articolo maschile indipendentemente dal sesso della persona designata (il presidente, il testimone, il dichiarante). Tuttavia, in questo caso sarei incline a non assumere che si tratti di maschili non marcati, semplicemente perché non è ovvio che debbano essere trattati come maschili. Sembra almeno altrettanto plausibile trattarli come nomi di genere comune (cioè che non cambiano forma in base al genere), o come coppie di lessemi distinti con la stessa forma – uno maschile e uno femminile – che quindi possono essere associati con i rispettivi articoli. Se è così, allora l’articolo maschile non può essere usato in modo neutrale per designare esseri umani di sesso femminile, quindi è appropriato rimpiazzarlo con l’articolo femminile in accordo con (A)[2].


Plurali e quantificazione

Ora veniamo al caso di cari tutti, espressione che fino a poco tempo fa era ampiamente utilizzata nei messaggi collettivi di posta elettronica e che ora viene spesso sostituita da espressioni alternative, come cari tutti e care tutte, care tutte e cari tutti, car* tutt*, carə tuttə. In questa ultima parte dell’articolo cercherò di mostrare che, contrariamente a quanto si tende a pensare, non è per niente ovvio che tali sostituzioni costituiscano un progresso, almeno se si adotta (A) come criterio di adeguatezza. Come risulterà chiaro, lo stesso discorso può essere esteso a espressioni analoghe: cari amici, cari colleghi e così via.

La prima domanda che bisogna porsi è se cari tutti sia davvero un’espressione non-neutrale. Sembra infatti che ci siano ragioni per pensare il contrario. In italiano il maschile plurale è usato in modo non marcato in un’ampia varietà di casi, secondo a una regola generale che prescinde dalla distinzione tra oggetti animati e oggetti inanimati: quando almeno uno degli oggetti considerati è di genere maschile, è corretto usare il maschile plurale. Ecco alcuni esempi con aggettivi e participi:

(1) La lima e il cacciavite sono metallici

(2) Luigi e Lucia sono mattinieri

(3) La lima e il cacciavite sono spariti

(4) Luigi e Lucia sono usciti

Mentre nel caso di (1) e (3) l’aggettivo e il participio sono riferiti a oggetti inanimati, nel caso di (2) e (4) sono riferiti a esseri umani. Ma si tratta di casi del tutto analoghi, perché l’unica cosa che conta ai fini della regola è il genere grammaticale. La stessa regola si applica alle espressioni quantificate, come tutti:

(5) La lima, il cacciavite e la tenaglia sono tutti e tre sul tavolo

(6) Lucia, Luigi e Matilde sono tutti e tre a casa

In accordo con questa regola, il quantificatore tutti, così come il singolare tutto, è usato per esprimere asserzioni generali che vertono su un dominio qualsiasi di oggetti, a prescindere dal genere dei nomi che designano tali oggetti, e in alcuni casi senza nemmeno presupporre che ci siano nomi per ciascuno di tali oggetti. Questa proprietà è compatibile con il fatto che, nella maggior parte dei casi, il contesto determini una restrizione del dominio di quantificazione, cioè che si intenda parlare di un insieme più o meno definito di oggetti, e non di tutto ciò che esiste nell’universo. Per esempio, nei seguenti esempi il dominio inteso è costituito da un insieme di persone, ma resta il fatto che l’asserzione è del tutto indifferente rispetto al genere dei nomi che designano tali persone:

(7) Tutti gli amici sono importanti per me

(8) Sono tutti contenti

(9) Sarebbe meglio non raccontare a tutti quello che ti ho appena detto

Normalmente, se una persona asserisce (7)-(9), lo fa per ragioni che non hanno niente a che vedere con il genere delle espressioni che si riferiscono agli individui del dominio, e quindi con il sesso di tali individui. Nella maggior parte dei casi, non si conosce nemmeno il numero esatto degli individui nel dominio o le loro caratteristiche.

Queste osservazioni mostrano che, date le norme che regolano l’uso del maschile plurale in italiano, è naturale interpretare cari tutti come un’espressione rivolta a tutte le persone nel dominio inteso, senza distinzioni di sesso. Non sembrano esserci ragioni di natura semantica per pensare che l’espressione si riferisca a tutte le persone di sesso maschile nel dominio inteso. Il che induce a pensare che cari tutti sia un’espressione neutrale: cosa c’è di male nel rivolgersi a tutte le persone nel dominio inteso?

Con questo non si intende eludere il problema epistemologico menzionato sopra. Il fatto è che nel caso di tutti sembra meno plausibile avanzare un’obiezione analoga a quella sollevata in riferimento a ministro, cioè appellarsi alle diverse intuizioni dei parlanti. In primo luogo, nel caso di ministro esistono fatti extralinguistici rilevanti di natura storica e sociologica: il ruolo designato dal nome, fino a tempi relativamente recenti, è stato sempre ricoperto da uomini, dunque è naturale associare il nome al sesso maschile. Lo stesso non vale invece per tutti, un’espressione che è sempre esistita nella lingua per esprimere generalità nei contesti più disparati. In secondo luogo, nel caso di tutti siamo in presenza di una regola grammaticale che si trova a un livello più alto di generalità — in quanto si applica ai generi, e solo indirettamente ai sessi — e che qualsiasi parlante competente conosce bene. Quindi non è chiaro come alcuni parlanti possano avere intuizioni semantiche che sono in conflitto diretto con quella regola.

Le considerazioni fin qui esposte inducono a dubitare che cari tutti sia non-neutrale, dunque che (i) sia soddisfatta. Ora cercherò di mostrare che, indipendentemente da queste considerazioni, non è nemmeno ovvio che le proposte alternative siano in grado di soddisfare congiuntamente (ii) e (iii). Iniziamo con cari tutti e care tutte. In questo caso la presenza di tutte, un’espressione marcata che quantifica solo su individui di sesso femminile, ha l’effetto di limitare il riferimento di tutti agli individui di sesso maschile, cosa che invece non succede nel caso di cari tutti. Si tratta di una restrizione analoga a quella che si ha nel seguente caso:

(10) Nello zoo ci sono tre leoni

(11) Nello zoo ci sono tre leoni e una leonessa

Se qualcuno proferisce (10) per elencare le specie animali presenti in un certo zoo, è naturale interpretare tre leoni come un'espressione che si riferisce in modo generico a tre esemplari qualsiasi della specie panthera leo. Nel caso di (11), invece, la presenza del femminile marcato leonessa determina una restrizione per cui la stessa espressione tre leoni designa tre esemplari di sesso maschile. Quindi il caso di cari tutti e care tutte è analogo a quello di he or she nel senso che l’espressione si divide in due parti, ciascuna delle quali si riferisce a un sesso ben definito. Per questo cari tutti e care tutte ha lo stesso difetto di he or she, cioè discrimina in almeno due sensi: introduce una relazione di ordine, e non tiene conto delle identità e degli orientamenti sessuali non binari. Chiaramente, non c’è alcun miglioramento se invece di cari tutti e care tutte si usa care tutte e cari tutti, perché entrambe le forme di discriminazioni rimangono.

Il caso di car* tutt* è diverso in questo senso, perché l’asterisco “opacizza” la desinenza maschile o femminile, quindi (ii) è soddisfatta. Tuttavia, si potrebbero sollevare dubbi riguardo a (iii), perché l’asterisco non è una lettera dell’alfabeto italiano, e come tale non ha un corrispettivo fonetico. Anche se si diffondesse l’uso di questo simbolo nell’italiano scritto, resterebbe comunque il problema di quale espressione utilizzare nel linguaggio parlato. Inoltre, come ha osservato Paolo D’Achille (Un asterisco sul genere, "Italiano digitale" XVIII, 2021, pp. 72-81.), l'uso dell’asterisco non è facile da generalizzare a livello morfosintattico. Mentre nel caso di tutt*, il simbolo sostituisce l’una o l’altra delle vocali i o e, ci sono parole come sostenitori, che non possono essere opacizzate nello stesso modo, perché sostenitor* non può essere una versione opacizzata di sostenitrici.

Considerazioni analoghe valgono per carə tuttə, che differisce da car* tutt* solo in quanto include lo schwa, simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale, al posto dell’asterisco. Sebbene questo simbolo rappresenti una vocale che di fatto si trova in molte lingue e in vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale, è una vocale diversa dalle cinque vocali dell’italiano, quindi la sua diffusione sarebbe per certi versi ancora più complessa dell’uso dell’asterisco. Inoltre, resterebbe il problema della generalizzazione: sostenitorə non è meglio di sostenitor*. Infine, una difficoltà ulteriore che sussiste nel caso dello schwa è che opacizza anche la differenza di numero, tanto che se fosse utilizzato, bisognerebbe trovare un modo di rappresentare con simboli diversi il singolare e il plurale (su questo punto si veda di nuovo D'Achille, ivi, p. 80.).

Esistono altre possibilità oltre a quelle considerate? Non si potrebbe usare una vocale dell’alfabeto italiano scelta appositamente invece di un simbolo? Anche qui le prospettive non sono rosee. Siccome in italiano le vocali o e i sono già usate per il maschile singolare e plurale, mentre a e e sono già usate per il femminile singolare e plurale, resterebbe solo la u. Ma la u, in alcuni dialetti italiani, è utilizzata per il maschile singolare, quindi è difficile resistere all’impressione che caru tuttu non sia una soluzione ideale. Inoltre, resta il problema della generalizzazione: sostenitoru è esattamente come sostenitor* e sostenitorə da questo punto di vista[3].

In sostanza, oltre non essere ovvio che cari tutti sia non-neutrale, cioè soddisfi (i), nessuna delle proposte alternative a cari tutti sembra essere in grado di fornire un’alternativa neutrale e allo stesso tempo realistica: ciascuna delle opzioni esaminate risulta insoddisfacente perché viola l’una o l’altra delle condizioni (ii) e (iii).


Conclusioni

In questo articolo ho presentato un criterio di adeguatezza per le proposte anti-sessiste di riforma linguistica e ne ho illustrato le implicazioni rispetto ad alcuni esempi ampiamente dibattuti. Per concludere, vorrei aggiungere tre osservazioni a proposito di cari tutti che contribuiscono a chiarire meglio il quadro teorico generale.

La prima osservazione riguarda la possibilità di studiare a livello empirico le reazioni dei parlanti. Nel paragrafo precedente ho cercato di mostrare che alcuni fatti semantici generali inducono a pensare che l’espressione tutti debba essere considerata non marcata. Siccome il significato delle parole di una lingua è determinato dall’uso che ne fanno i parlanti della lingua, questo significa pensare che i parlanti, o la maggior parte dei parlanti, o gli insiemi più rappresentativi dei parlanti, si trovino d’accordo sul carattere non marcato di tutti. Ovviamente, potrei sbagliarmi. Uno studio empirico potrebbe mostrare che i parlanti, e soprattutto le parlanti, percepiscono tutti come un’espressione marcata. Se così fosse, allora quello che ho suggerito nel paragrafo precedente a proposito della condizione (i) sarebbe sbagliato. Ma in tal caso – proprio perché i fatti semantici vengono determinati dall’uso della lingua – esisterebbero fatti semantici diversi da quelli enunciati in molti testi di linguistica, quindi bisognerebbe cambiare anche quei testi. Inoltre, continuerebbe a valere quanto detto a proposito delle possibili alternative a cari tutti.

La seconda osservazione riguarda la regola stessa del maschile plurale non marcato. Pur riconoscendo che tutti si comporta in modo non marcato, come risultato di una convenzione generale che risale alle origini della lingua italiana, non si potrebbe criticare proprio questa convenzione perché stabilisce che il maschile, invece che il femminile, possa esprimere generalità? Non saprei. Innanzitutto, la convenzione concerne principalmente i generi grammaticali, come si è osservato sopra, quindi sembra fuori luogo caricarla di implicazioni sessiste. La sua utilità consiste nel fatto che, usando uno dei due generi in modo non marcato, si riesce a esprimere generalità in forme decisamente economiche, cioè senza dover usare ogni volta congiunzioni. In questo senso (7)-(9) sono più economici dei seguenti enunciati:

(12) Tutti gli amici e tutte le amiche sono importanti per me

(13) Sono tutti contenti e tutte contente

(14) Sarebbe meglio non raccontare a tutti e a tutte quello che ti ho appena detto

Certamente, è del tutto arbitrario che venga adottato il maschile invece che il femminile per svolgere questo ruolo. Ma l’importante è che uno dei due generi lo svolga. Per esempio, gli italiani guidano a destra perché a un certo punto della storia d’Italia si è adottata la convenzione di guidare a destra. Ovviamente, si tratta di una scelta del tutto arbitraria: non ci sono ragioni di principio per pensare che la destra sia migliore della sinistra. Ma in ogni caso è utile avere una convenzione che privilegi uno dei due lati. In linea di principio non avrei niente in contrario se si decidesse di usare il femminile come genere non marcato, invece del maschile. Sarebbe come decidere di guidare a sinistra. Ma si noti che, nella prospettiva qui adottata, in entrambi i casi si tratterebbe di una convenzione priva di implicazioni sessiste. Se invece si pensasse che la regola attuale del maschile non marcato non sia neutrale, allora nemmeno la nuova regola del femminile non marcato lo sarebbe, quindi sostituire il maschile con il femminile costituirebbe una forma di discriminazione positiva.

La terza osservazione riguarda una possibile reazione alle conclusioni qui raggiunte. Indipendentemente dai fatti semantici menzionati – si potrebbe ribattere – è comunque preferibile usare cari tutti e care tutte, o care tutte e cari tutti, perché la sensibilità va al di là della semantica: soprattutto quando è un uomo a scrivere, un riferimento esplicito alle donne mostra che si dedica un’attenzione speciale a una certa parte dell’uditorio. La risposta a questa reazione, nel quadro di un discorso politico più generale, è che la parità ha ben poco a che vedere con la gentilezza e le attenzioni. Un sistema equo nel senso che mi interessa – un meccanismo di selezione pubblico o privato per assegnare beni, cariche o posizioni – è un sistema che non discrimina nel senso che non guarda in faccia a nessuno, per così dire, cioè si comporta nello stesso modo indipendentemente dalle identità o dagli orientamenti sessuali. Lo stesso tipo di neutralità, secondo me, dovrebbe valere nel linguaggio, almeno nella misura in cui non si considerino gli effetti retorici o pragmatici degli usi linguistici. Anzi, si potrebbe argomentare che la parità non implichi sensibilità ma insensibilità, cioè indifferenza rispetto a una serie di caratteristiche personali che dovrebbero essere considerate irrilevanti. Se qualcuno pensa che promuovere la parità consista nel riservare attenzione speciale alle donne, allora stiamo parlando di cose diverse.


Note:

[1] Una soluzione intermedia è s/he, che però risulta problematica sia rispetto a (ii) sia rispetto a (iii).

[2] Questa linea, a mio avviso, può essere ragionevolmente estesa anche ad alcuni nomi per i quali esiste già una forma femminile diversa, come studente

[3] Questo problema dipende da caratteristiche specifiche dell’italiano. In spagnolo, per esempio, il maschile todo/todos e il femminile toda/todas impiegano solo due vocali, o e a, quindi restano libere altre vocali, come la e, che potrebbero essere utilizzate per una forma neutra todes, come di fatto è stato proposto.