Riflessioni su alcune particolarità dell’italiano di oggi: il cambiamento non investe solo la lingua, ma anche la lingua

di Paolo D’Achille

"Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento… e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, che sono avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa": Paolo DAchille invita a riflettere su alcuni aspetti dell'italiano contemporaneo.


Paolo D'Achille

L’Accademia della Crusca, da anni, si occupa sia di studiare e promuovere lo studio dei testi antichi – che rappresenta di certo il suo principale compito istituzionale (oggi si dovrebbe dire la sua mission!), ma non l’unico (come invece a volte affermano, più o meno in buona fede, esponenti di altri centri di ricerca che si occupano, tra l’altro, della lingua italiana) – sia anche di osservare e analizzare l’italiano di oggi, per spiegare i cambiamenti in atto, per esprimere opinioni (non sempre e non necessariamente pienamente convergenti tra tutti i membri dell’Accademia) su certe tendenze della lingua, per collaborare, quando le viene richiesto, con istituzioni e organi statali, e, all’occorrenza, per prendere posizione su scelte (anche politiche) che toccano l’uso dell’italiano. Il Servizio di Consulenza linguistica, nella sezione delle risposte ai quesiti e in quella delle parole nuove, affronta continuamente questioni che si legano all’italiano di oggi; le attività della Crusca Scuola vertono su aspetti della didattica che riguardano l’intero percorso di studi primari e secondari, e quindi investono in prima istanza proprio l’insegnamento/apprendimento della lingua contemporanea (e non solo all’interno della materia che viene chiamata genericamente “italiano”).

Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento (e del resto l’Accademia è stata forse la prima istituzione linguistica che ha usato questa parola quando, sotto la presidenza di Giovanni Nencioni, promosse una serie di conferenze raccolte in un volume del 1982 intitolato appunto La lingua italiana in movimento) e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa. È un dato di fatto. La comunicazione mediata dal computer (con le conseguenti trasformazioni che hanno subito le attività di lettura e di scrittura), l’uso generalizzato dello smartphone, la partecipazione sempre più massiccia ai social network, il quotidiano contatto con l’inglese e, al tempo stesso, la riduzione della comunicazione intergenerazionale, soprattutto tra genitori e figli (un po’ meglio sembra procedere quella tra nonni e nipoti), con la conseguente diminuzione di una diretta trasmissione di “saperi” di vario tipo, sono elementi evidenti, che fanno parlare (soprattutto chi non è del mestiere) di un “impoverimento” dell’italiano.

Quando vengo intervistato (e mi capita abbastanza spesso), provo sempre un certo disagio nel momento in cui mi si pongono domande sull’impoverimento dell’italiano, in che cosa consista, come si possa arginarlo. Da un lato, infatti, mi verrebbe spontaneo confermare il dato (non ci sarebbe niente di male: lo fanno molti colleghi, anche tra gli accademici), pensando a certe indubbie carenze nella competenza attiva e passiva del lessico da parte delle ultime generazioni (che ignorano il significato di parole che appartengono, secondo il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, all’uso comune, se non addirittura al vocabolario di base, nella sezione del lessico di alto uso), nonché al venir meno di conoscenze relative alla mitologia, agli episodi biblici ed evangelici (gli uni e gli altri fondamentali non solo per la lingua e la letteratura, ma anche per la storia dell’arte e l’iconografia), al melodramma e al teatro greco-romano, italiano e straniero. D’altra parte, penso anche alle maggiori competenze che hanno i miei figli e i miei allievi non solo nel padroneggiare l’inglese, ma anche nella ricerca di informazioni in rete; o nel trovare, sulla base di testi brevissimi (magari combinati con immagini), soluzioni a problemi di funzionamento del computer, del cellulare, del telecomando, dei dispositivi elettronici delle nuove automobili; oppure nell’indicare nuovi generi musicali, capi di abbigliamento, aspetti dello sport che agli anziani come me sono sostanzialmente ignoti (e non parlo di nozioni relative alla sfera sessuale, in cui, diciamo la verità, tra adulti e giovani il dialogo è sempre stato problematico). Penso che, al di là degli stereotipi dei boomer, dei nativi digitali, dei millenial, ecc., il salto generazionale mai come oggi sia stato così forte e così percepibile e percepito. Si parla da tempo di “lingua dei giovani” o di “linguaggio giovanile” (il cui studio scientifico è iniziato negli anni Ottanta del secolo scorso), ma solo con il cambio di secolo, man mano che siamo entrati nel nuovo millennio, la distanza tra “giovani” e “adulti” è cresciuta, in parallelo con l’allungamento dell’età media (e quindi delle prospettive di vita) delle persone, ma anche con il protrarsi, spesso eccessivo, se non dell’età, almeno della condizione giovanile (quella in cui si vive ancora con i genitori, si è ancora figli e non padri e madri) e anche, aggiungerei, della crescita del tempo da dedicare al lavoro, che ha sottratto inevitabilmente spazio ai rapporti familiari (e, forse, non solo a questi).

Dopo questa lunga premessa, vorrei segnalare alcuni fatti, di diversa importanza sul piano linguistico, che meritano una qualche riflessione, prima ancora di pensare a specifici rimedi, riprendendo alcuni temi che ho affrontato in vari interventi congressuali di cui ancora non sono stati stampati gli atti e facendo implicitamente riferimento alle risposte del servizio di Consulenza linguistica della Crusca e alle schede sulle parole nuove, a cura della stessa Consulenza, pubblicate in questo stesso sito.

Un primo dato, che è già stato oggetto di studio, è la crescente tendenza, negli ultimi anni, a indicare gli anni, per esempio il 2024, non come duemilaventiquattro ma come venti-ventiquattro, sul modello dell’inglese. L’uso, iniziato dai primi anni Duemila, ha avuto un’impennata con il 2020, in cui la ripetizione venti-venti era particolarmente accattivante, si sta estendendo anche al di fuori dell’ambito giovanile e sembra destinato ad aumentare ancora, almeno fino al 2029 (poi, con il cambio di decennio, l’uso tradizionale potrebbe forse riprendere vigore).

Molta minore attenzione, a quanto mi risulta, è stata finora riservata a un altro fatto: l’ordinamento alfabetico degli antroponimi, che spesso inizia dal nome e non dal cognome della persona: me ne sono accorto qualche anno fa, guardando l’elenco dei cantanti in gara al festival di Sanremo; poi ho appurato che la stessa cosa avviene (e avveniva di certo già in precedenza) per i partecipanti agli incontri a distanza in rete sulle varie piattaforme. Ora, se ci si può rallegrare del fatto che sia stato abbandonato l’uso burocratico di anteporre il cognome al nome – che aveva ricadute presso i semicolti, a cui rimandano il titolo della commedia De Pretore Vincenzo di Eduardo De Filippo e La ballata del Cerutti di Giorgio Gaber (“Il suo nome era Cerutti Gino / ma lo chiamavan Drago / gli amici del bar del Cardellino / dicevan ch’era un mago”) –, va detto però che premettere il nome al cognome può essere lecito solo nei casi di transonimizzazione: che il liceo classico Ennio Quirino Visconti preceda il Torquato Tasso in una lista di licei romani non è troppo sorprendente (anche se nell’uso comune si parla semplicemente del Visconti e del Tasso), ma nel caso degli odonimi, per esempio, almeno negli stradari che si consultavano prima dell’avvento di Google Maps, a dettare l'ordinamento è il cognome del personaggio a cui la via è intitolata, in quanto più importante. Ora, nelle prime versioni di certe tesi triennali, capita a volte di trovare ordinate in base al nome (scritto per esteso) e non al cognome anche le bibliografie che sciolgono le citazioni bibliografiche “all’americana” (autore-data) interne al testo.

Due tratti minimi, di carattere puramente grafico, ma che meritano di essere citati, sono l’uso, ormai quasi generale, dovuto ai programmi di scrittura su computer, dell’apostrofo “rivoltato” in caso di forme aferetiche, per cui capita di trovare grafie come ‘l o ‘500. Ammetto di avere una particolare idiosincrasia per quest’uso (come pure per l’apostrofo “dritto”, che è normale nei testi in rete, specie se si alterna, nei testi a quello “all’inglese” a forma di virgola). Deriva probabilmente dall’inglese (ma non è esclusivo degli ultimi anni, anche se appare solo da qualche tempo decisamente in crescita) l’uso della lineetta che non separa un inciso, e che quindi non viene chiuso da un’altra lineetta, ma da un punto, che fa assumere a ciò che segue un significato esplicativo rispetto a ciò che precede. Non si è invece esteso (almeno finora) l’uso inglese di non inserire spaziature prima e dopo le lineette.

Restando nell’ambito della grafia, sopra ho citato dei versi di una canzone di Gaber, rimati AbAb; ma oggi i testi delle canzoni vengono riprodotti con accapo quanto mai improbabili, che non consentono di cogliere la struttura poetica dei testi. A proposito, questi, per un calco dall’inglese che considero assurdo, vengono a volte chiamati liriche: mi è infatti capitato di leggere sulla locandina di un musical “musiche e liriche”, a dispetto del significato che la parola, sia al singolare sia al plurale, ha nella tradizione italiana. D’altra parte, i calchi traduzione dall’inglese che trascurano totalmente i precedenti significati italiani delle parole, ormai, non si contano più: da conferenza per convegno a cortesia per concessione, da crediti per ringraziamenti all’uso assoluto di dedicato nel senso di apposito (esempio, quest’ultimo, che dimostra come gli anglismi determinino anche mutamenti sul piano della sintassi). Cominciano ad apparire in rete anche esempi di operatico, modellato sull’inglese operatic e/o sullo spagnolo operático, invece di operistico: cantante operatico, musica operatica, canto operatico, con buona pace del successo internazionale del melodramma italiano!

Dovuti soprattutto ad approssimazioni, inaccettabili quando imputabili a giornalisti, sono scambi come beni voluttuosi per beni voluttuari, che potrebbero aggiungersi alla lista di “neosemie” come reciproco per rispettivo, di cui posso dare un esempio tratto da un messaggio di posta elettronica che ho ricevuto di recente insieme ad altri destinatari, in cui il mittente scrive che mette a disposizione “i vostri reciproci numeri di cellulare” (dopo aver detto, all’inizio, che "copio in questa email” non i nomi o gli indirizzi dei destinatari, ma i destinatari stessi!).

La velocità della comunicazione, la fretta con cui un po’ tutti siamo costretti a scrivere testi, anche non informali, le particolarità della scrittura su computer, le tecniche con cui si realizza e le modalità con le quali ci si corregge mentre si scrive (a partire dal “copia e incolla”, utile ma insidioso) e soprattutto la sempre più frequente assenza di rilettura (che in passato era considerata un elemento imprescindibile della lingua scritta, da annoverare tra quelli che la differenziano dal parlato) hanno determinato un cambiamento epocale, che è ormai pienamente e generalmente percepibile nei testi in rete e che in futuro potrebbe accentuarsi ulteriormente, per effetto dell’abbandono (da molti giustamente paventato) della scrittura a mano nell’insegnamento della scuola primaria.

Concludo con un fatto sintattico, che ormai spesseggia nelle scritture, soprattutto (ma non solo) in rete: quello che è stato definito come “gerundio irrelato”, che non si riferisce al soggetto sintattico della frase principale, con la quale ha un rapporto puramente semantico. Ne riporto un esempio tratto dalla rete (riprodotto così come si legge): “Regalo divano e’ macchiato ha delle macchie avendo due bambini!!”. Ora, in un simile contesto diafasico e diamesico (si noti l’assenza di qualunque segno di interpunzione) il costrutto può essere perfino considerato accettabile (è chiaro che i bambini sono i figli del proprietario o della proprietaria del divano, e non di quest’ultimo!). Ma lo è molto meno quando si ritrova in testi di livello diverso, come il seguente: “Entrambi gli spettacoli hanno gioito di un elegante apporto di applausi al finale tributando il successo chiarissimo delle due Mimì e del Rodolfo di Vittorio Grigolo”, dove tributando è logicamente riferito ad applausi, ma sintatticamente legato a Entrambi gli spettacoli. Eppure, quest'uso è in decisa crescita, anche perché costituisce per chi scrive un comodo modo per portare avanti l’argomento del discorso senza dover cambiare la frase (non posso escludere che qualche “gerundio irrelato” sia sfuggito perfino a me) e ormai, in certi esempi, passa quasi inosservato anche a chi legge.

Mi fermo qui: penso che per una prima riflessione sugli attuali cambiamenti dell'italiano i dati presentati possano essere sufficienti. Ma ce ne sono anche altri, e mi riservo di proporli presto in un altro Tema.  

Redazione
01 marzo 2024 - 00:00

Commento di chiusura di Paolo D'Achille

Il mio Tema ha suscitato un gran numero di interventi, come era forse prevedibile, dato l’argomento affrontato, quello dell’italiano contemporaneo, in cui molti italiani si sentono direttamente (e giustamente) coinvolti, in quanto parlanti e in quanto cittadini. Sento anzitutto il dovere di ringraziare tutti coloro che hanno partecipato al dibattito, con interventi anche lunghi e complessi, che in qualche caso hanno dialogato tra loro, a volte anche animatamente, lasciando sullo sfondo il mio intervento per approfondire, del tutto legittimamente, questioni che non avevo specificamente affrontato.

Ringrazio anche per le critiche ricevute, che sono sempre benvenute, perché costituiscono per me uno stimolo a riflettere, a chiarire meglio o a precisare (a me stesso prima che agli altri) il mio pensiero. E questo vale anche per gli interventi deliberatamente provocatori, come quelli di chi sostiene che “descrivere la decadenza dell’italiano non serve a nulla” o di chi afferma che nel mio contributo non ho mostrato novità, ma solo “esempi di maltrattamento della lingua italiana, senza deprecarli decisamente, anzi ammettendo di non esserne immune”. Del tutto immune, per la verità, non sembra neppure chi ha scritto questa frase, vista la precedente: “Non vorrei che in nome della realtà appunto la Crusca registri tutto senza indicarci probi modelli di bello scrivere”, dove quel registri andrebbe corretto in registrasse, vista la dipendenza da vorrei, almeno secondo la “perfetta prosa” di cui la Crusca dovrebbe indicare i modelli.

Ringrazio anzitutto chi mi ha segnalato la svista relativa al nome del bar della canzone di Gaber da me citata, che è “del Giambellino” e non “del Cardellino”; avrei dovuto ricontrollare il testo, ma mi sono fidato della mia memoria. Naturalmente, se il tema verrà stampato, provvederò a correggere l’errore (che comunque non compromette la sostanza del discorso). Ringrazio poi tutti coloro che hanno scritto messaggi di apprezzamento: il primo ad essere postato, nella sua brevità, mi ha davvero colpito e quasi commosso. Ringrazio anche l’accademico e amico Riccardo Gualdo per le opportune precisazioni sull’apostrofo “rivoltato”; il suo intervento mi dà anche modo di dire che spetta a lui il merito di aver segnalato per primo il “gerundio irrelato”. Aggiungo che ho notato anch’io esempi di usi irregolari dell’infinito come quello da lui indicato, ma che, almeno per ora, li rubricherei come “errori”, avvertiti come tali anche da chi legge, diversamente dal gerundio irrelato, che mi pare invece in tale espansione da non essere più percepito come forma deviante (almeno dalla maggioranza dei lettori). Giustissima è l’osservazione sull’espansione di tipo come puro segnale discorsivo: non ne ho parlato nel tema, ma ne ho accennato in altre occasioni, rimandando agli studi specifici di Miriam Voghera; e utilissima, anche come spunto per future riflessioni sul tema, la rassegna di vari altri calchi grafici e sintattici sull’inglese, proposta, del resto, da una vera esperta in materia.

Quanto all’intervento sui rischi cognitivi, oltre che linguistici, che comporta il progressivo abbandono della scrittura a mano, posso dire, senza entrare nel merito delle proposte avanzate, che il tema sta molto a cuore all’Accademia, che ne ha trattato anche sul fascicolo “La Crusca per voi” di qualche anno fa. Negli ultimi mesi se ne sono fatti portavoce soprattutto il presidente onorario Francesco Sabatini e l’accademica Maria Luisa Villa, biologa. La Crusca non solo ha dato il suo patrocinio a varie iniziative al riguardo, ma ha anche aderito all’“Osservatorio Carta, Penna & Digitale” della Fondazione Einaudi, che si occupa proprio di questo.

Vengo così alle due questioni centrali, sulle quali tornano, con vari interventi, a volte (come ho detto all’inizio, anche molto critici), alcuni lettori: il problema degli anglismi e il ruolo della Crusca di fronte alle novità dell’italiano di oggi. Si tratta di argomenti che non intendevo affrontare specificamente nel mio tema – la cui intenzione era di mettere in relazione fatti linguistici, anche minuti, con mutamenti sociali e culturali di portata più vasta – ma che sono venuti fuori dai commenti, dai quali è scaturito un vivace dibattito teso a fare il punto sulle funzioni e sui compiti della nostra Accademia di fronte all'italiano d'oggi, specie in rapporto all’inglese.

Parto proprio dalla seconda questione: l’Accademia è un ente statale, che ha il compito di promuovere e tutelare gli studi sulla lingua italiana, sia del passato sia del presente, e si avvale per legge, ormai da vari anni, di un finanziamento ministeriale, a cui se ne aggiungono altri da vari enti, pubblici o privati, che hanno per fine la realizzazione di specifici progetti (organizzazione di congressi, pubblicazioni di testi particolari, informatizzazione e messa in rete di dizionari o corpora, ecc.) e che (è bene precisarlo, perché forse non a tutti è noto) non riguardano gli accademici, i quali lavorano gratuitamente. La Crusca non ha, istituzionalmente, funzioni di indirizzo linguistico, a meno che non venga esplicitamente interpellata da singoli organi statali, come è avvenuto di recente (oltre un anno fa, ormai) nel caso del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione a proposito di alcune scelte linguistiche relative al genere (come viene ricordato in uno degli interventi). Inoltre, come è noto, l’Accademia dal 1990 svolge un Servizio di consulenza linguistica, inizialmente sul periodico “La Crusca per voi” e ora soprattutto sul sito, in una pagina apposita, in cui accademici, collaboratori dell’Accademia, docenti di linguistica italiana e di linguistica generale rispondono a domande poste dal pubblico (le risposte vengono poi rilanciate sui vari social dell'Accademia e alimentano dibattiti, spesso molto accesi, tra consenzienti e dissenzienti) e schedano le parole nuove. Pertanto, non sembra obiettivamente giusto rilevare “l'avvenuta metamorfosi dalla Crusca normativa a quella descrittiva, che registra, prende atto, elenca ma non sconsiglia o vieta usi scorretti”: la Crusca sconsiglia eccόme, ma cerca ogni volta di distinguere tra “usi scorretti” su cui si può ancora intervenire, e mutamenti tuttora in corso o addirittura già avvenuti, di cui non si può che prendere atto. Tutte le lingue naturali, infatti, cambiano nel corso del tempo, e almeno una parte dei cambiamenti nasce proprio da quelli che inizialmente sono considerati errori. Oltre tutto, non sempre quelli che vengono ritenuti errori sono tali. Così, condurre una battaglia contro la denominazione Paralimpiadi o Giochi paralimpici non avrebbe alcun senso: infatti, essa si allinea non solo all’inglese Paralympic Games, ma anche al francese Jeux paralympiques, al tedesco Paralympische Spiele e allo spagnolo Juegos paralímpicos. Il nome originario, alle Olimpiadi di Roma del 1960, era quello di Giochi internazionali per paraplegici e quello attuale, certamente modellato sull’inglese, significa ‘olimpiadi per atleti disabili’. Non si tratta dunque di un termine formato col prefisso para- + olimpiadi, bensì (come indica correttamente il Nuovo Devoto-Oli 2024) di una parola macedonia, formata da para(plegico) e (o)limpiadi sul modello dell’inglese paralympics, documentato fin dal 1955 secondo l’Oxford English Dictionary, che fornisce la stessa spiegazione. Proprio l’etimologia chiarisce perché la vocale finale di para- si sia mantenuta e non sia stata elisa prima della vocale iniziale di olimpiadi, che invece è caduta. La forma paraolimpiadi, con lo iato, è peraltro ancora presente e registrata nei dizionari (alcuni dei quali la danno come entrata principale, sebbene oggi sia minoritaria) e chi vuole può liberamente usarla, senza però censurare chi adopera l’altra.

C’è, tra gli intervenuti, chi mette in discussione o guarda con malcelata ironia le innovazioni dell’italiano di oggi da me descritte, che considera errori o fatti del tutto trascurabili: è liberissimo di farlo, ma non può pretendere che l’Accademia dia “voce al suo interno a prosatori e poeti, se ve ne sono” e offra al pubblico “la proposizione di un canone di auctores italiani stabile, da cui attingere le forme corrette dello scrivere”. Intanto, va rilevata l’impraticabilità del concetto stesso di “canone di auctores italiani stabile”, visto che la stabilità è propria solo delle lingue morte; e tale in effetti era ritenuto da molti (ma non a ragione) l’italiano prima della svolta postunitaria, quando era una lingua prevalentemente usata nello scritto. Inoltre, segnalo che tra i membri della Crusca c’è stato in un passato recente il poeta Mario Luzi e ci sono tuttora un poeta (oltre che storico della lingua) come Enrico Testa e due critici come Pier Vincenzo Mengaldo e Vittorio Coletti, il quale ha firmato pochi mesi fa un bellissimo Tema dedicato proprio alla letteratura italiana contemporanea (Ma conta ancora l'italiano letterario?, https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/ma-conta-ancora-l-italiano-letterario/31039, sul quale, guarda caso, non ci sono stati commenti). Ma poi chi intende “tener[s]i fermo alla grande letteratura”, a quale letteratura si riferisce? Oggi l’italiano della letteratura non è, non può, né vuole essere un modello di lingua scritta di testi argomentativi, espositivi ecc., perché spesso, inevitabilmente, insegue il parlato. Certo, ognuno può circoscrivere il proprio orizzonte linguistico all’uso scritto delle persone colte (specie di una certa età) e, in tal caso, è normale che non provi alcun interesse per i mutamenti (o meglio, per le tendenze in atto) dell’italiano di oggi a cui il mio testo fa riferimento, mutamenti che non vengono neppure avvertiti o sono percepiti come fenomeni devianti rispetto al modello di lingua desiderato. Si spiega così il fatto che, a proposito della pronuncia 20-24 dell’anno in corso, si possa affermare candidamente: “quando mi capiterà di leggere i due venti in un romanzo di spessore, allora ne terrò conto e lo accetterò, obtorto collo”; e che il disinteresse per i dialetti sia documentato, e contrario, dalla grafia A ridatece invece del romanesco aridatece, con la a- del prefisso ari- interpretata come preposizione.

Per quanto riguarda l’inglese, infine, è evidente che molti dei fatti da me segnalati (a partire dalla pronuncia dell’anno appena citata) si devono al contatto dell’italiano con questa lingua, mai così stretto come oggi, e – diciamolo pure – alla progressiva invadenza dell’inglese (o meglio dell’anglo-americano) a cui fa riferimento, nella sua voluta estremizzazione, anche l’unico commento firmato con uno pseudonimo. Il tema è trattato più estesamente in altri interventi, con le cui osservazioni concordo quasi sempre. Mi trovano particolarmente consenziente i due opportuni riferimenti a Pasolini (come si può verificare leggendo un mio saggio su questo autore disponibile anche in rete: L'italiano per Pasolini, Pasolini per l'italiano: https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2020/03/L%E2%80%99italiano-per-Pasolini-Pasolini-per-l%E2%80%99italiano.pdf) e l’affermazione che “la lingua è di tutti”. Ma non mi pare che si possa sostenere che la Crusca usi “due pesi e due misure nei confronti della pianificazione linguistica e dell'interventismo”, in un caso prestando attenzione al tema della femminilizzazione dei nomi maschili delle cariche e in un altro disinteressandosi all’avanzata dell’inglese (accusa, questa, ancora più netta da parte di chi parla dell’Accademia addirittura come di “ente inutile […] che andrebbe rifondato”). Ricordo, anzitutto, che presso la Crusca è attivo il gruppo Incipit, costituito e coordinato dal presidente onorario Claudio Marazzini, che ha effettuato, dal settembre 2015 fino al gennaio 2024, 23 comunicati (alcuni dei quali hanno preso in esame non uno solo, ma vari neologismi). Pochi, a giudizio di chi (in un intervento peraltro molto cortese) parla di “attività […] davvero assai sporadica” del gruppo, ritenendo la Crusca “non particolarmente incisiva” su questo terreno; pochi ma buoni, direi io; e forse fin troppi, se considerati in rapporto alla scarsa o nulla attenzione che ad essi è stata riservata da politici e apparati statali, con una sola importante eccezione, quella del comunicato n. 13 (numero fortunato, evidentemente) su data breach, di cui l’INPS tenne conto. Va comunque ricordato che durante il periodo più acuto della pandemia il gruppo volle deliberatamente tacere, limitandosi al citato intervento su data breach e, successivamente, a quello su booster.

L’apparente differenza di posizioni che ci viene addebitata sta nel fatto che nel caso della femminilizzazione delle cariche il parere della Crusca è stato spesso richiesto (un esempio è stato ricordato all’inizio) e ascoltato, mentre nel caso dell’inglese no. Ma sull’inutile e anzi dannoso uso degli anglismi nei testi pubblici, sullo spazio che l’inglese ha indebitamente sottratto all’italiano nella scuola, nell’Università e nella ricerca la Crusca ha sempre preso posizione con fermezza, in Atti di convegni, nella pagina del sito dedicata ai Temi, negli interventi, scritti e orali, che vari accademici – a partire dai presidenti di turno – hanno effettuato in varie sedi. L’ultimo, di pochi giorni fa, è stato il mio, e ne accenno soltanto perché lo potete trovare in questo stesso sito.

Ancora grazie a tutti.

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Licia Corbolante
25 febbraio 2024 - 00:00
Aggiungo l’esempio “2ndo anniversario” visto in una comunicazione del Ministero degli Esteri sull’Ucraina del 24 febbraio, rappresentativo della tendenza di ricalcare il modello inglese per indicare i numeri cardinali, più frequente però con suffisso di due lettere, ad es. “45mo” anziché 45º o 45esimo o “21mo secolo” anziché XXI secolo. Nell’ambito della grafia si nota un proliferare di iniziali maiuscole sul modello inglese, non solo per i nomi dei giorni, dei mesi, delle stagioni e delle lingue ma anche nei titoli, per qualsiasi parola (il “title case” americano). Un altro esempio grafico è il segno + che segue un numero tondo per indicare un quantitativo superiore ma imprecisato, come ad es. “1000+ eventi”. 1000+ ha senso in inglese perché + rappresenta "plus" che equivale a “or more” e si POSPONE al numero (“n plus events”), non mi pare invece giustificato in italiano perché diciamo invece “più di n eventi”. A proposito di canzoni e relative assurde “liriche”, ormai i nuovi brani o album non escono più ma sono “fuori ora”, calco di “out now”. Altri calchi fraseologici che trovo parecchio fastidiosi sono “è qui per restare/rimanere” da “it’s here to stay” e “là fuori” da “out there”. Non riesco ad abituarmi al nuovo uso della preposizione “con” a cui viene attribuita la funzione che hanno in quanto a, relativamente a, in fatto di, riguardo a, per ciò che riguarda. Da anni raccolgo esempi: si nota in locuzioni come “il problema con x”, cosa succede con x”, “cosa fare con x”, “come funziona con x”, “le novità con x” (cfr. the problem with x, what’s going on with x, what should we do with x, how does it work with x, what’s new with x). Potrei fare molti altri esempi ma meglio non infierire!

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Antonio Cortello
25 febbraio 2024 - 00:00
Nel novembre del 2021 ho inviato una lettera alle più alte cariche istituzionali, a personalità illustre della cultura e alla vostra istituzione sul tema da Lei esposto, ma nessuno mi ha risposto, tranne voi, grazie ancora.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
22 febbraio 2024 - 00:00
Il gerundio irrelato. Gli esempi addotti, la loro provenienza pare la riprova, sono imputabili probabilmente a scarsa padronanza della lingua italiana, oggi esibita nelle sedi più insospettabili. Ciò è normale, pochi sanno scrivere bene. A scuola non si insegna più a scrivere in corretto italiano, tanto è vero che gli Atenei in fretta e furia si sono attrezzati con i corsi non poi così nuovi di "Istituzione di letteratura italiana" (proprio oggi avevo per le mani le istituzioni del Mestica del 1882, scritte per ogni ordine di scuola, pure gli istituti tecnici). Non vedo, certo dal mio osservatorio ultralimitato e beatamente arroccato, alcuna novità. A voler cercare nei secoli passati tra i documenti del volgo l'errato costrutto magari lo si troverà pure; ma la Crusca un tempo mica indugiava sugli scivoloni degli indotti. Siccome pochi ormai leggono i libri seri, nei quali splende la perfetta prosa, l'Accademia, nel rivolgersi praticamente a tutti, conscia di come il fenomeno immigratorio abbia stravolto le classi scolastiche, del fatto che milioni di italiani stiano inchiodati sulla Rete a leggere ogni corbelleria senza curarsi dell'autorevolezza della fonte, rassegnata alla deriva della scuola ove il diplomino non si nega a nessuno, purché abbia dimostrato tanta, tanta volontà, disposta infine a rispondere ai quesiti posti su ogni dubbio o novità, quando basterebbe saper leggere una buona grammatica, non dico quella del Fortunio, di due sole parti del discorso, ma almeno quella scolastica limpida del buon Migliorini, porta a dimostrazione delle mutazioni della lingua tra il popolo , questi esempi che ci dicono che c'è chi scrive male (ma va?). Finché ci fu a dirigerla il santo Bernabei la Rai educo', lasciando fuori dalla porta volgarità e sciatteria, anche linguistica; poi un lento precipitare verso la "realta" del "parla come magni". Non vorrei che in nome della realtà appunto la Crusca registri tutto senza indicarci probi modelli di bello scrivere, che soli possono servire alla gioventù studiosa. Mostrare esempi di maltrattamento della lingua italiana, senza deprecarli decisamente, anzi ammettendo di non esserne immune, rischia di risultare assolutorio per gli studenti italiani.

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Costantino Andruzzi
18 febbraio 2024 - 00:00
Errata corrige: il bar citato nella canzone di Gaber, "La ballata del Cerutti", è "del Giambellino", non "del Cardellino". Saluti.

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Luigino Goffi
16 febbraio 2024 - 00:00
La Riflessione introduttiva al Tema del mese è talmente densa di spunti interessanti, che bisognerà dilungarsi negl'interventi, col rischio di essere tacciati - come al solito - di uscire dal Tema. Vero è che, da ormai troppi anni, esiste un solo tema: la salvezza della lingua italiana, dato che, se l'italiano dovesse dissolversi - come sta effettivamente accadendo -, non avremmo più Temi da trattare, ma Themes, spediti per e-mail alla Bran Academy. Forse è meglio che qualcuno si prenda la briga di dilungarsi un po', per un fine superiore; del resto c'è sempre il cestino: non mi offendo. 1. Il primo spunto, importantissimo, si focalizza sul pericolo, più che concreto, dell'eventuale abbandono della scrittura manuale nell'insegnamento primario. Poiché, nella vita, bisogna saper far tutto, non solo l'avvocato ma anche l'idraulico, sarebbe bene ammettere, da parte degli avversari, che il corsivo sviluppa nel discente una manualità che la dattilografia non può dare, visto che, manualmente parlando, in essa le lettere dell'alfabeto sono tutte uguali, consistendo in una pressione su un tasto, al contrario del corsivo, in cui ogni lettera induce a movimenti specifici. Il problema, però, è che anche i più strenui difensori del corsivo - che non mettono in dubbio, giustamente, la superiorità funzionale del compiùre - non si pongono le domande fondamentali, o, se lo fanno, non dànno le risposte giuste, ostacolati da un malinteso rispetto della Tradizione. Perché il corsivo non ha più presa sulla gente? Perché esistono così tanti disgrafici? La risposta è una sola: la forma delle lettere del corsivo attuale è scomoda, e, quindi, sbagliata. Tant'è vero che non sono solo i bimbi a perdersi nei complicati punti di svolta a cui li costringono la compresenza di lettere orarie (meno comode da scrivere) (es.: /n/, /m/) e lettere antiorarie (decisamente più comode) (es.: /u/). Anche molti adulti risolvono il problema degli odiosi punti di svolta o staccando le lettere (e quindi abbandonando, a tratti, il corsivo) oppure scrivendo in modo antiorario le lettere orarie. Ad es., la parola °nona° la scrivono, rispettivamente, o così: /n o n a/ o cosà: /uoua/. Detto per inciso: le parole intese come pronuncia le metterò tra cerchietti ("°") (visto che il cerchio ricorda molto bene le onde sonore, il suono), e metterò tra sbarrette ("/") la scrittura delle parole, cioè la forma scritta delle parole (visto che la sbarretta ricorda molto bene una penna impugnata pe' scrivere). In passato, quando la vita era meno complicata, c'era più tempo a disposizione per dedicarsi alla scrittura a mano; oggi questo tempo non c'è più, e il corsivo passa in secondo piano. Ecco perché è fondamentale razionalizzarlo e renderlo più comodo e veloce, e, di conseguenza, appetibile. E, allora, qual è l'ideale scrittura corsiva di °nona°? I paleografi ci insegnano che, pe' scrivere velocemente e comodamente, il tratto deve essere continuo e antiorario. Dunque, °nona° andrebbe scritto così: /uoua/, come fanno molti . Ma se la °n° andrebbe scritta /u/, come scriveremo la °u°? è semplice: la scriveremo come la scrive il cirillico: /y/; ad esempio, il russo /ypok/ (= "lezione") si pronuncia °uròk°. E come scriveremo la latina °y°? Il modo più veloce di scriverla consiste nell'allungare in alto la seconda astina della lettera stessa. Tutto ciò è perfettamente razionale, perché la forma più comoda (/u/) va attribuita alla lettera - tra quelle viste - che ricorre statisticamente di più: la °n° (la °y° manco esiste nell'italiano attuale!). La °n°, infatti, in media, ha, in italiano, una ricorrenza quasi doppia della °u° - come si può constatare contando le °u° e le °n° presenti anche solo in una pagina di un qualsiasi testo italiano preso a caso (inutile dire che più pagine e più libri si considerano, più il calcolo è preciso) -. Operando nello stesso modo cogl'altri fonemi e grafemi, sono giunto a un alfabeto continuo e antiorario, comodo e veloce, che amplifica il piacere di scrivere a mano; ed è anche più preciso perché, attribuendo un simbolo apposito alle palatali (che in latino non c'erano), e alle sonore, permette di attuare il principio "un suono un simbolo". Per lasciarsi alle spalle le diffuse cacografie e le inevitabili lamentazioni, bisogna ridisegnare la forma delle lettere del corsivo. Si noti che riformare il corsivo non significa sminuire la grande tradizione calligrafica medievale (onciale, textura, beneventana, borgognona, ecc.). Da questo punto di vista, infatti, la calligrafia è più avvicinabile alla stampa che al corsivo, perché ha lettere posate, cioè staccate, mentre il corsivo vuole un tratto unico per ciascuna parola. La riforma del corsivo, dunque - inevitabile se non ci si vuol mettere, un giorno, a piagnucolare sul triste destino dell'Umanesimo -, non va demonizzata perché non toglie attualità né prestigio ai grandi manoscritti del passato vergati in calligrafia; il corsivo, infatti, è un'altra cosa.

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Nicola Annunziata
14 febbraio 2024 - 00:00
Premetto che non sono un linguista, ma solo un appassionato di questi temi. La riflessione di D’Achille è interessante, evidenzia che i cambiamenti dell’italiano hanno pressoché un’unica origine: l’inglese, e aggiungerei specificamente l’inglese americano. Questi cambiamenti non sono relativi solo al lessico, i sempre più diffusi anglicismi, ma molto più pervasivi, come nota D’Achille, dagli aspetti grafici ai calchi che stravolgono il significato di vocaboli italiani - che da falsi amici dei termini inglesi divengono amici se non veri quantomeno verosimili - fino a coinvolgere anche la sintassi, come nel caso del gerundio irrelato. L’entità del fenomeno è evidenziata da D’Achille, ma, pur essendo un cambiamento che investe in profondità la lingua, credo sia la prima volta che diviene tema di discussione di questa rubrica dell’Accademia. Anche l’attività del Gruppo Incipit è davvero assai sporadica: l’ultimo comunicato è del mese scorso, ma il precedente era addirittura di un anno prima, gennaio 2023. La Crusca comunque dà attenzione, magari non particolarmente incisiva, alla questione, che viceversa tra i non addetti ai lavori, è spesso negata. Non da tutti, in verità: per alcuni viceversa appare un fatto auspicabile. Lo si comprende leggendo testi non solo e non tanto del linguaggio giovanile quanto di linguaggi settoriali, come quello dell’informatica, della moda, dell’economia o del lavoro aziendale. Questi testi forniscono sostanziale conforto alle posizioni di coloro che parlano di “itanglese” per designare questa lingua (non soltanto) settoriale. È singolare, tra l’altro, che la posizione di chi suggerisce di difendere l’italiano da un eccesso di anglicismi sia vista come una posizione di destra, forse in memoria della politica linguistica del fascismo, laddove, piuttosto che rievocare contesti vecchi di ottant’anni e oltre, sarebbe molto più sensato riconoscere l’influsso del linguaggio “globale” promosso dalle multinazionali. Se dovessimo ragionare quindi con le tradizionali categorie politiche sarebbe più di destra l’invasione dell’inglese, la “lingua del capitale” piuttosto che il suo contenimento. Cosa pensa D’Achille si debba fare allora? Questa è la domanda che gli porgo. Assistere al cambiamento con atteggiamento notarile o cercare di dirigerlo? Contrastare per esempio almeno l’uso disinvolto di anglicismi da parte della Pubblica Amministrazione o rassegnarsi al suo dilagare? Già abbiamo nell’ordinamento italiano enti definiti “academy” nella loro norma istitutiva (gli ITS Academy, scuole tecniche post secondarie), quanto aspetteremo per avere la Crusca Academy?

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Carla Brozzi
13 febbraio 2024 - 00:00
La ringrazio per questi spunti molto precisi che ci fanno riflettere sui cambiamenti in atto nell'italiano che a differenza degli espliciti anglismi non sono non facili da cogliere per chi ama la lingua italiana pur non essendo del mestiere. A questo proposito, mi permetto un suggerimento di lettura per i signori Nicolai, Zoppetti e Mescolini i quali non sembrano avere compreso appieno il tema del mese, né le finalità dell'Accademia della Crusca e dei linguisti. Si intitola "Difendiamo l'italiano dai suoi difensori" del linguista Giulio Vaccaro ed è stato pubblicato in insulaeuropea.eu

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
24 febbraio 2024 - 00:00
Solo ora, grazie o per colpa della Brozzi, vengo a sapere che la Crusca dà (per gioco?) i voti ai testi (e non solo) delle canzoni sanremesi! leggo (per farmi del male?) quello della vincitrice, come fosse un componimento poetico o un libretto d'opera o un'aria metastasiana, insomma provo a "gustarne" la forma per vedere se, privato della musica, abbia un valore a sé stante. E mi chiedo come quelle parole possano meritare un nove! La Crusca temo stia ragionando come certi sacerdoti che, non più sicuri di sé, vedendo la loro autorevolezza traballare, per avvicinare i giovani (quali?) alla fede si fanno fare i tatuaggi, diventando come loro. La colpa non è della Brozzi ma mia, che perdo il mio tempo in questo modo barbaro. Altro che noia!
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Carla Brozzi
15 febbraio 2024 - 00:00
Per il sig. Valente -> non capisco il motivo di una reazione così scomposta e ancor meno da cosa evinca che io possa volere la lingua italiana subordinata a quella inglese. Per il sig. Fiocchi Nicolai -> se ha l'opportunità di guardare qualche filmato sul recente Festival di Sanremo sentirà innumerevoli esempi di "venti ventiquattro". Non intervengo sul resto perché aborro l'idea di logorroici excursus come quelli già visti in altri temi del mese.
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Antonio Zoppetti
15 febbraio 2024 - 00:00
Signora Carla, conosco quell'articolo, solo che non lo condivido, e non si può liquidare chi non è d'accordo come qualcuno che non ha capito. Mi permetto anch'io di consigliarle un articolo, quello del linguista Marco Biffi “Se l'italiano diventa la lingua 'bassa' a causa di scelte miopi” (sul Corriere fiorentino), che credo ponga la questione in modo esemplare (poi si può non condividere pur comprendendolo). Quanto alle finalità della Crusca distinguerei lo studio della lingua dagli altri ruoli indicati nella premessa dal prof. D'Achille, tra cui quello di collaborare con le istituzioni, quando la coinvolgono. Le ricorderei per esempio le Linee guida per la femminilizzazione delle cariche di Cecilia Robustelli e il ruolo della Crusca nell'affiancare le amministrazioni nel linguaggio rispettoso del genere, che individuava bene anche le strategie di intervento. E allora mi pare che si usino due pesi e due misure nei confronti della pianificazione linguistica e dell'interventismo. A mio avviso l'inglese è divisivo e discriminatorio, e come ha denunciato l'Académie française, crea barriere e fratture sociali, oltre a porre il problema del rispetto per le lingue nazionali. Quindi il problema è politico e non si può ridurre alle questioni linguistiche in senso stretto. Del resto la lingua è di tutti e non è appannaggio dei linguisti. Nelle controversie secolari sulla questione della lingua il ruolo di scrittori, letterati, intellettuali, editorialisti, giornalisti, librettisti non è stato meno significativo di quello dei linguisti o dei grammatici, anzi... ripenso a Pasolini che aveva capito le cose con parecchi decenni di anticipo rispetto ai linguisti che lo fischiarono. Il dibattito ha sempre coinvolto tutti ognuno con le sue prospettive. E questo pluralismo di vedute è una ricchezza.
Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
15 febbraio 2024 - 00:00
La Signora Brozzi mi dà, senza rendersene conto, ragione, perché : 1) I parolieri di San Remo, coi loro "baby" e le parolacce a ogni pie' sospinto, non danno alcun contributo alle nostre lettere, nonostante la Crusca cerchi di dare dignità letteraria se non addirittura poetica ai testi delle canzoni; 2) io non mi supisco affatto se questi cantanti, per essere al passo coi tempi, infarciscano di date ridicole le loro narrazioni più o meno interessanti. Anzi, mi confermo nella volontà di tenermi fermo alla grande letteratura, che sola può dare decoro e senso ed eleganza a roba simile. Si rilegga non i logorroici excursus dai quali rifugge, ma Le avvertenze generali intorno allo studio della lingua del Parini: là non v'è spazio per considerazioni né sulle arie d'opera (che già son altra cosa) né sulla prosa dei giornali ma solo sulla nobile comune lingua italiana incarnata nei capolavori dei grandi scrittori.
Risposta
Valente
15 febbraio 2024 - 00:00
Tralasciando l'afflusso di parole e calchi inglesi, cosa importante per carità, altro aspetto su cui soffermarsi, almeno per me, è la sempre più massiccia ASSENZA dell'italiano da scuole e università. Oltretutto, proprio qualche giorno fa un campus a Rimini ha annunciato che abolirà i corsi in Italiano di una certa facoltà per svolgerli solo in inglese. Ciò corrobora l'articolo citato dal sig. Zoppetti, secondo cui l'Italiano si approssima a diventare, in ITALIA, una lingua bassa, secondaria, subordinata all'inglese. Solo a me suscita problemi questa continua estromissione dell'italiano da settori del sapere a favore dell'inglese ? Anche il continuo ricorrere all'inglese per parlare di economia, informatica, digitale, come scrive il sig. Annunziata, dimostra quanto l'italiano sia fuori da questi ambiti, e lo si veda come una lingua priva di mezzi o strumenti per esprimere concetti complessi. E purtroppo questo è un destino che accomuna molte altre lingue.
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Marco Valente
13 febbraio 2024 - 00:00
L'Italiano andrebbe tutelato da quelli che come lei lo vorrebbero subordinato all'inglese.
Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
13 febbraio 2024 - 00:00
Quello che io ho compreso, Signora Brozzi, è, nella premessa, che i giovani hanno tante straordinarie competenze, come quella di indicarci nuovi capi di abbigliamento, che ne hanno perdute altre, come quelle sul melodramma, la mitologia, il teatro greco-romano, la storia dell'arte, le vicende narrate dalla Bibbia (a questi riferimenti necessari a comprendere e gustare un classico dovrebbe sopperire l'Antropologia, inserita a forza nei manuali di letteratura soprattutto latina). Nel tema, e mi fermo alla prima osservazione, che prende piede l'uso di indicare gli anni dal duemila con forme come "venti-venti". Non lo sapevo, francamente, e forse vivo fuori dal mondo. Ma, anche qui, mi chiedo, qual è la fonte? sinceramente, quando mi capiterà di leggere i due venti in un romanzo di spessore, allora ne terrò conto e lo accetterò, obtorto collo. Fino ad allora ignorerò tale vezzo. Va da sé che il solo modo di dare valore a questi dibattiti sia non di plaudere acriticamente, ringraziare sentitamente, censurare chi dice la sua, bensì di trarre spunto dal tema per spaziare, aprire squarci, uscire dalle secche dei dettagli insignificanti e riferire la propria parziale perfettibile percezione dei mutamenti in atto. Allora mi tocca difendere Zoppetti (che sa farlo egregiamente da solo).
Riccardo Gualdo
11 febbraio 2024 - 00:00
Caro Presidente, grazie delle annotazioni su alcuni dei movimenti in atto nell'italiano contemporaneo, un tema a cui hai sempre dedicato attenzione con sensibilità ed equilibrio. Insieme all'influsso di modelli angloamericani mi sembra rilevante, anche da alcuni esempi raccolti in questo "Tema del mese", il condizionamento degli strumenti informatici. La grafia dell'apostrofo "rivoltato" è automatica nei programmi di scrittura; per correggerla ci vogliono un'attenzione particolare e un po' di tempo. I sistemi non proprio intelligenti di ordinamento alfabetico producono l'anticipazione del Visconti al Tasso nell'elenco dei licei classici romani. Al caso del gerundio irrelato aggiungo un altro esempio di indebolimento dei vincoli sintattici nell'uso dei modi indefiniti. Anche le subordinate con l'infinito tendono a essere concordate in modo irregolare, cioè - tendenzialmente - attribuendo il ruolo di reggenza non al soggetto grammaticale, ma all'elemento più vicino nel testo. Da un servizio di un telegiornale (La7) di sabato 10 febbraio 2024: "otto agenti ... compariranno davanti al GIP per decidere se mandarli a processo". Ovviamente è il GIP che decide, non gli agenti.

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Fausto Mescolini
08 febbraio 2024 - 00:00
Gent. Sig. D'Achille, è ovvio che l'italiano sia in movimento, come tutte le lingue vive. Meno ovvio è che subisca la pesante interferenza dell'inglese, che ci fa dimenticare il lessico italiano. Con questo articolo, la Crusca rimarca ancora il suo ruolo collaborazionista in questo, perdendosi nelle minuzie di trattini e apostrofi (invece di indicare l'uso corretto), sottolineando ironicamente (forse) che "si dovrebbe dire mission" e ignorando il fatto che il vocabolario d'uso comune viene sistematicamente smantellato dall'elite politico-culturale, in favore di parole come contest, outfit, carpet e via delirando. Per questo l'Accademia della Crusca potrebbe sembrare un ente inutile, che andrebbe rifondato. Cordali saluti

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Marco Valente
07 febbraio 2024 - 00:00
Crusca e istituzioni non seggano sullo steccato(tanto per usare un calco inglese) e collaborino per rivalorizzare l'italiano. Descrivere la decadenza dell'italiano non serve a nulla.

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Dino Leoni
07 febbraio 2024 - 00:00
Gentile prof. D’Achille, sulla base dei primi dati di una ricerca dottorale sull’italiano dei temi scolastici, che porto avanti ormai da un anno, mi sono accorto di un fenomeno, già molto diffuso nell’oralità, ma a volte ignorato dai docenti di italiano come interferenza diamesica: il metaplasmo del sostantivo generico “tipo” come segnale discorsivo (ad esempio, come). Anche Lei ha avuto modo di appurarne la progressione?

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Riccardo Baldinotti
07 febbraio 2024 - 00:00
Caspita se è in aumento. Io sistematicamente prendo in giro una ragazzina:; ogni volta che lo dice aggiungo: "Non proprio così, ma quasi"... Lei mi sopporta.
Antonio Zoppetti
07 febbraio 2024 - 00:00
Buongiorno. Mi pare che “l'indubbio movimento” dell'italiano sia particolarmente intenso perché l'interferenza dell'inglese ha proporzioni inaudite rispetto per esempio all'impatto che nella nostra lingua (e nell'Europa intera) ha avuto lo spagnolo secentesco o il francese tra il Settecento e gli inizi del Novecento. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma – che considero l'effetto di una nostra più ampia americanizzazione sociale, economica e culturale – di un ordine grandezza superiore, che incide sulla nostra lingua in modo altrettanto schiacciante. Riporto qualche dato. Il Devoto Oli 1990 registrava 1.600 anglicismi crudi, oggi più di 4.000. Nel vocabolario di base di De Mauro nel 1980 se ne contavano una decina, nell'ultimo aggiornamento del 2016 sono 129. L'evoluzione dell'italiano sta avvenendo quasi solo con l'accumulo di anglicismi, per avere idea delle proporzioni ricordo che circa il 50% parole del nuovo millennio è costituito da anglicismi, stando allo spoglio dei dizionari. In questo moltiplicarsi, e penetrare in profondità, le radici inglesi si allargano nel nostro lessico con un effetto domino e generano persino prefissoidi formativi (baby, cyber, under/over...); stanno esplodendo le forme ibride (chattare, libro-game, shampista...). Quest'ultimo fenomeno è una novità mai vista nella storia dell'interferenza del francese o dello spagnolo sulla nostra lingua. Gli ibridi a base francese si contano sulle dita di una mano (parquettista, foularino, voyerismo e poco altro). Spero di non aver anticipato (spoilerato si direbbe nel gergo giovanile-internettiano) i dati previsti in un prossimo tema del mese, ma mi sembrano questi i fatti macroscopici e – a mio giudizio – preoccupanti. La domanda che mi pongo, e che pongo, è quale sia il confine tra la normale evoluzione di una lingua e la sua trasformazione in qualcosa d'altro, perché mi pare che il punto cruciale di ogni riflessione stia in questo nodo. L'attuale “movimento” sta indirizzando la nostra lingua verso un “itanglese” che spezza la continuità e comprensibilità storica con l'italiano ed evoca lo sfaldamento del latino nei volgari, più che costituire un generico “impoverimento” che si denuncia da decenni. Questo itanglese si configura come un vero e proprio “modello linguistico” di prestigio (una volta era il toscano, e prima ancora il latino) alla base della comunicazione anche istituzionale che Incipit ha più volte evidenziato, ma che è ormai dominante nell'informatica, nel lavoro e un po' in ogni settore. La mia preoccupazione non ha a che fare con il purismo: "l'accattar parole" altrui di Machiavelli non doveva snaturare l'indole della lingua, come pensava anche Leopardi, o Cesarotti a proposito del genio linguistico. In altre parole gli avversari del purismo di ogni epoca (inclusi Muratori e persino Verri della rinuncia al Vocabolario) nell'essere aperti ai cambiamenti ponevano un ben preciso paletto: se questi cambiamenti intaccano l'identità -- il nucleo strutturale -- della lingua la corrompono più che farla evolevere. Personalmente non sono preoccupato da problemini di grafia (dove aggiungerei anche la tendenza a indicare le percentuali dei sondaggi politici con il punto al posto della virgola anche nel parlato televisivo), né dall'inversione sintattica di espressioni come “social media manager” o “covid hospital”. Paradossalmente se un giorno dicessimo il "rosso maglione" invece del "maglione rosso" credo che sarebbe ancora italiano, al contrario del "green pass" ma anche del "pass green", poco importa la collocazione in questo caso, perché i "corpi estranei" in inglese (per dirla con Castellani) non si amalgamano con il tessuto linguistico che li ospita, violano le regole di ortografia e pronuncia, ne sono strutturalmente fuori e le stanno intaccando. Nell'eventuale “pensare ai rimedi” credo allora che poiché l'epoca del purismo è finita, come anche quella della sciagurata politica linguistica del regime, si dovrebbe ragionare su ciò che può anche cambiare e ciò che invece è bene cercare di mantenere fermo, e lo si dovrebbe fare in termini di “ecologia linguistica” dove le parole straniere (TUTTE non solo l'inglese, altrimenti si chiama colonialismo linguistico) sono bene accette se non diventano predominanti e non crescono in modo abnorme; ma in questo caso si deve intervenire. La selezione naturale invocata nel Proemio di Ascoli che piace ai linguisti di oggi è un po' pericolosa nel “far west” e nel “far web” dell'espansione di un inglese globale che ha tendenze cannibali (lo sanno bene in Africa ma anche in Islanda, per citare una lingua europea a rischio di estinzione). Grazie.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
13 febbraio 2024 - 00:00
Ciò che conta non è la possibilità che l'italiano si evolva all'insegna della scienza e della tecnica o la quantità di inglesismi e in genere di forestierismi (pazientemente calcolati coll'arido spirito del metodo quantitativo) che essa accoglie; non si capisce perché non dovrebbe farlo in linea di principio, se resta salva la sua capacità comunicativa e, soprattutto dico in questo consesso, espressiva. Lo iato tra tradizione letteraria e popolo non è una novità per noi e se prima gli umanisti disputarono nel loro latino ora provvede il Sole 24 ore a creare un codice escludente chi non sa d'inglese (in un articolo recente ivi pubblicato sul ridimensionamento degli spazi destinati agli uffici ho contato decine di parole inglesi, alcune per me in accezioni nuove -" prime" ad esempio - ma, dell'italiano che restava, ben tre occorrenze - in un articolo! - dell' abusatissimo "iconico" (tutto era iconico per l'estensore del testo!)). A fare per secoli dell'italiano una lingua illustre sono stati i suoi esiti letterari inarrivabili, che hanno dimostrato al mondo che in questa lingua potevano essere trattati degnamente e in stile umile medio e sublime gli argomenti più e meno nobili; la nostra lingua è stata, è ancora, la lingua del melodramma, e persone da ogni parte del mondo decidono di imparare l'italiano per poter leggere in originale la Commedia. Nella rarefazione espressiva dell'italiano letterario, nella sua canonizzazione e separatezza, un ruolo decisivo lo svolsero prima Bembo poi gli Accademici della Crusca, ai cui dettami dovettero conformarsi o fare i conti il gusto e lo stile degli scrittori. Mentre il Re del Piemonte parlava in piemontese o in francese! Tornando a oggi, nulla impedisce un uso letterario e fantasioso dei nuovi apporti lessicali esteri, basti far caso alla prosa funambolica di una cronaca sportiva, e del resto può assurgere ad arte l'uso abile dei ridotti spazi fisici di scrittura. Sono i grandi scrittori oggi come ieri a dare una sanzione superiore, una giustificazione in termini di potenza espressiva, alle novità in fatto di lingua. E di essi la Crusca dovrebbe occuparsi, non degli esiti giornalistici o francamente plebei di dette novità, che sconfortano chi si è formato sul Carducci. Un novello Dante non è all'orizzonte, e forse non la parola scritta ma la visione filmica oggi si presta meglio (purtroppo!) a narrare il viaggio corale periglioso e mistico dalle coste libiche a Lampedusa. Per finire nel più prosaico e vile dei modi, a me interessa meno come parla il conduttore del Tg1 (macché, ormai dovremo dire la conduttrice, ché se non son donne e pure belle la Rai rischia la taccia di sessista!), o come sui giornali l'italiano venga strapazzato o ancora il modo in cui i nostri atenei e le riviste specialistiche di ambito accademico impongano, servili, l'inglese tra abstract e articoli di economia e corsi esclusivamente in lingua inglese, o, infine, che il Ministero invii circolari e comunicazioni interne in inglese. A me interessa di più in che misura gerghi e calchi e prestiti lessicali e piccoli stravolgimenti della sintassi possano divenire materiale testuale accattivante per facitori di opere d'arte letteraria, nella continuità colla nostra gloriosa tradizione. Non so se alla Crusca interessi però.
Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
12 febbraio 2024 - 00:00
Rispondo a Zoppetti che il ruolo di filtro e di argine all'invasione che invasione non è ma solo una gara di zelo provinciale giornalistico e ministeriale, ansia di apparire europei, voglia di attirare studenti stranieri, sete di Pil, vocazione all'apertura delle classi dedite al commercio, ignoranza e, da parte della massa picco borghese, mimesi, il ruolo di argine spetterebbe non al TG1 o ai disegni di legge, bensì, ancora una volta, all'esempio intimidatorio e suasivo di una scrittura prestigiosa, quella letteraria sia pure rinnovata (non possiamo scrivere mail ispirandoci ad Annibal Caro, per quanto...), sola capace di imporre all'estero il fascino della nostra lingua e far sentire gli italiani orgogliosi di parlarla a testa alta senza sensi di inferiorità (e del resto i dialetti la svolgono eccome la funzione per la comunità locale di esame linguistico da superare per chi desideri entrare a farvi parte, escludendo gli altri, tanto e vero che gli stranieri ansiosi di integrarsi adoperano il romanesco meglio di me). A me va bene pure il Fenoglio col suo pastiche del Partigiano Jonny, perché è il Fenoglio e non un Pinco Pallino qualsiasi. Ma constato che il web intriga maggiormente la linguistica sociologica e computazionale (sparacchio vocaboli a caso, come mi vengono), non più a suo agio con la letteratura. E la Crusca? da voce pure a me, che di enigmistica mi occupo e non di empirismo eretico. Da voce pure a me, ed è tutto dire...
Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
12 febbraio 2024 - 00:00
P. S. In sostanza è inane tutto questo dibattito dal basso, quando l'Accademia non dovrebbe averne bisogno. Il quarto d'ora di celebrità non si toglie a nessuno, ma nemmeno di quella qui si tratta, bensì di considerazioni valide quanto si vuole ma prive di echi - ve l'immaginate il Ministro dell'Istruzione avido dei nostri discorsi? - che, sì, possono maieuticamente tirar fuori nei partecipanti qualche spunto interessante, persino dei contenuti di verità, ma senza che ad essi possa seguire un cambio di rotta. Ecco perché non ci si può affidare alla categoria del giornalismo di professione, che Ojetti e compagnia non sono evidentemente riusciti ad integrare in quella degli scrittori, o alla classe politica, che rapperizza l'italiano (divisivo, divisivo, divisivo, inclusivo, inclusivo, inclusivo, resiliente, resiliente, resiliente - e non è inglese ma orrido e ideologico italiano, cioè vuoto) ma agli artisti della penna, i quali soli hanno sensibilità per LA QUESTIONE DELLA LINGUA!!! Sempre lì si torna; l'Accademia dovrebbe dar voce al suo interno a prosatori e poeti, se ve ne sono (non ho voglia di controllare) invece di far da sfogatoio agli allarmismi degli apocalittici. Una sana, sobria, non algebrica, non statistica discussione sull'Italiano letterario domandiamo, da cui ripartire per imporre una lingua alta. Il resto non serve. Ed è pure noioso.
LUCA FIOCCHI NICOLAI
07 febbraio 2024 - 00:00
Oggi non è questione di purismo (che limitava i modelli all'aureo Trecento) al massimo di neopurismo, e, a dir la verità, non credo che centoventinove voci forestiere accolte nel lessico fondamentale o anche quattromila su quaranta volte tanto possano rappresentare un cambio di paradigma - molto più rilevanti ai fini dell'individuazione del passaggio da una lingua ad un altra sono gli stravoglimenti nella morfologia e, soprattutto, nella sintassi, vero marchio distintivo di una lingua rispetto alle altre, ma, leggendo una frase in Italiano neostandard chiunque constata che la nostra favella è assai riconoscibile! - ma solo un termometro storico della direzione dei nostri scambi cuturali. La vera questione, che investe il rapporto tra elite e popolo, è la perdita di importanza della lingua letteraria e in generale di qualsivoglia canone nel fissare come normativi i comportamenti linguistici della comunità, a partire dalla rinuncia della borghesia ai vecchi metodi di insegnamento e all'osmosi col latino, non più visto come formativo e indispensabile alla formazione della classe dirigente. Lo strapotere dei possessori dei nuovi media, favorito dai governi per elevare la velocità degli scambi, esige una semplificazione del linguaggio, non una neolingua; le favelle pertanto continuano a distinguersi beatamente fra loro, solo uniformandosi a certe esigenze di comunicazione. L'Accademia però pare aver perso l'ancoraggio ai riferimenti "alti" tutta presa, anzi ammaliata dagli effimeri fenomeni della rete, e non filtra più la monnezza verbale ma lascia correre, perdona, giustifica, chiude un occhio, annaspando di fronte al fanatismo in gonnella che nel femminilizzare più parole possibili ha trovato un nuovo sfogatoio. Io, in un'epoca in cui il canone letterario muta colla stessa velocità colla quale le elite si avvicendano nel palcoscenico della storia, dalla Crusca desidero la proposizione di un canone di auctores italiani stabile, da cui attingere le forme corrette dello scrivere. È tanto difficile? o è inutile?

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Risposta
Antonio Zoppetti
08 febbraio 2024 - 00:00
In risposta a Nicolai, preciso che il dato a mio parere allarmante, non è nel numero di 129 anglicismi – non “forestierismi”, spesso sento confondere le due cose perché tanto ormai tutto è inglese – nel vocabolario di base, ma il fatto che siano decuplicati nell'arco di una generazione. Lo stesso vale per l'incremento da 1.600 a 4.000 sul dizionario. Ragionare sui numeri assoluti è un errore, come è un errore diluire il numero degli anglicismi con il numero dei lemmi di un dizionario (intorno ai 100.000 nel caso del Devoto Oli). A parte il fatto che i vocabolari (che qualcuno ha definito cimiteri delle parole) includono voci desuete, morte o tecnicismi di settore molto specialistici, si possono far delle analisi un po' più precise, e per. es. gli anglicismi sono quasi tutti sostantivi o aggettivi, dunque le percentuali si dovrebbero calcolare semmai su queste categorie e non sul lemmario totale. Ma anche questo criterio non è significativo, dunque bisogna ragionare anche in termini di frequenza d'uso, e proprio per questo i 129 sono la dimostrazione della penetrazione dell'inglese persino nel lessico di base. Dai miei calcoli, tra i 4.000 anglicismi in circolazione registrati dai dizionari ce ne sono almeno 1.500 (ma forse se ne può includere qualche centinaio in più) che appartengono al linguaggio comune. Nel 1990 gli anglicismi erano al contrario soprattutto confinati nell'ambito dei tecnicismi, dunque marginali. Una fotografia degli anglicismi degli anni '80 – statica – fu fatta molto bene da De Mauro, che nella sua controversia con Castellani dimostrò, numeri alla mano, che le percentuali di inglesismi non erano preoccupanti. Peccato che non aveva colto il fenomeno nel suo allargarsi rapidamente, che invece colse Castellani, pur senza dati statistici. Ed è andata a finire che proprio De Mauro ha dovuto ricredersi, e a proposito delle sue posizioni storiche ha ammesso che dal Morbus anglicus di Castellani siamo ormai in presenza di un vero e proprio “tsunami anglicus”. L'italiano cosiddetto neostandard di Berruto, o medio di Sabatini, definizioni che risalgono agli anni '80, mi pare che dopo l'avvento di internet si configuri maggiormente come italiano “newstandard”, la cui “riconoscibilità della favella” è venuta meno, al punto che in uno degli ultimi comunicati di Incipit rivolto al piano scuola 4.0, l'accademia ha rinunciato a indicare i sostitutivi italiani suggerendo di far circolare due documenti, uno per gli addetti ai lavori e uno “tradotto” per il popolo. Non credo che dopo le riflessioni di Pasolini l'italiano letterario sia proponibile come modello, diciamo che dagli anni '60 i nuovi centri di irradiazione della lingua tecnologica che provenivano dal nord si sono spostati negli USA, dunque sono fuori dall'Italia e dall'italiano, e oggi il mondo del lavoro non solo richiede, ma impone l'itanglese. L'itanglese sta diventando un modello linguistico spacciato per moderno e internazionale, una scelta stilistica delle nuove classi dirigenti e dei nuovi centri di irradiazione della lingua. Che fare allora? Credo che si dovrebbe imparare da ciò che si fa in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Islanda persino in Cina, e finirla una buona volta con la sciocchezza per cui l'unico modello di politica linguistica a cui l'italietta guarda è quello del fascismo. La pianificazione linguistica che da noi – solo al nominarla – fa gridare al fascismo o al purismo è normale nella maggior parte degli altri Paesi, dove infatti l'anglicizzazione non è minimamente paragonabile a quella che si registra da noi.
Luca Fiocchi Nicolai
06 febbraio 2024 - 00:00
A ridatece Salviati, verrebbe da malignare, leggendo la carrellata di nuovi costrutti e stramberie linguistiche tratti da fonti non sempre precisate e in ogni caso non dotte. C'è da chiedersi se, finita l'era dei vocabolari tirannici, da sempre contestati nella loro pretesa di far legge sulla scorta di pochi, ben selezionati scrittori del buon secolo, L'Accademia, ricevuta nuova veste istituzionale, in cerca di un'identità in grado di giustificare l'autorevolezza ereditata dalla sua storia, ma finendo per condividere con la scuola e la grande letteratura la sorte di una decisa perdita di prestigio, non si sia arresa al liberi tutti in fatto di lingua imposto dai nuovi media. Che senso avrebbe tirare un sospiro di sollievo per la possibilità ancora data di lasciare un po' di spazietto alle lineette, onde permetterne il respiro agevole, o sorprendersi dell'inclinazione giornalistica ai beni voluttuosi, se non per dimostrare l'avvenuta metamorfosi dalla Crusca normativa a quella descrittiva, che registra, prende atto, elenca ma non sconsiglia o vieta usi scorretti? Certamente essa pare meno interessata a compulsare testi canonici che fungano da indiscusso modello di buona scrittura che a navigare in internet in cerca di incontri a distanza, quasi a sancire l'irrilevanza della lingua letteraria e dei grammatici nel dettare la norma linguistica alla massa informe di quelli che un orrido gergo scientifico definisce 'parlanti'. Sono più importanti le fonti anonime, le tastiere del computer, i social e i webinar di un ottimo scrittore, poiché, in armonia coi ritmi della rete, per stare sul pezzo, ovvero aggiornare minuto per minuto i lettori di ogni effimera novità, occorre guardare a fonti scadenti ma diffuse, a tentar di presagire futuri comportamenti prevalenti nell'uso del lessico, della morfologia, della sintassi, dell'interpunzione. Giusto il rilievo sulla perduta, saggia, irrinunciabile regola della rilettura di un testo, parliamo pur sempre, appunto, di contesti di comunicazione non sorvegliati, che alla Crusca di un tempo non fregavano un bel niente. E pensare che il Leonardo Salviati era moderato reintegrando l'Alighieri! Ma qui siamo alla registrazione di ogni fenomeno, senza che sia espressa un'ombra di giudizio netto, stroncatorio, coraggioso! mai una ciazione da grandi scrittori italiani (che poi una scrittrice decida di scrivere "la personaggia" dice solo che a volersi cercare modelli di bello scrivere occorre guardare oltre). La Crusca ha persino sdoganato "Paralimpiadi"!!! Mi consolerò colla sana rilettura del vostro Corticelli. Cone antidoto metodologico allo sciattume.

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Un puzzone
06 febbraio 2024 - 00:00
Dato che oramai l'intero italiano sta diventando un calco dell'inglese perché non accelerare il processo e imporre direttamente l'inglese.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
06 febbraio 2024 - 00:00
P. S. "Paralimpiadi" che, è giusto dirlo, nemmeno l'amico Rosario Coluccia gradisce poi molto (dire che lo aborre significherebbe tirarlo per la giacchetta).

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Anna Giambagli
06 febbraio 2024 - 00:00
Resti con noi per favore. Vi è un bisogno infinito di pensiero. Grazie.

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