Per un’internazionalizzazione realmente plurilingue delle Università

di Michele Gazzola

Nell'articolo che proponiamo Michele Gazzola commenta la sentenza della Corte Costituzionale sull'insegnamento in lingua inglese nelle Università italiane, di cui parliamo anche nella sezione "Notizie" del nostro sito
Michele Gazzola è ricercatore nel gruppo “Economia e Lingua” presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione della Humboldt-Univerisität zu Berlin, ricercatore all’Istituto di Studi etnici a Lubiana e docente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera italiana a Lugano.

I fatti. Nel 2012 il Senato accademico del Politecnico di Milano aveva deliberato che l’inglese sarebbe diventato la lingua di insegnamento esclusiva nelle lauree specialistiche e dei corsi di dottorato. Questa scelta è stata oggetto di contenzioso davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) e successivamente al Consiglio di Stato che ha a sua volta sollevato un dubbio di costituzionalità davanti alla Corte Costituzionale. La sentenza della Corte è stata pubblicata lo scorso 24 febbraio. Pur avendo ricevuto una certa visibilità nella stampa, quasi sempre, purtroppo, si è trattato di cattiva informazione. La Corte, infatti, ha stabilito che le università pubbliche possono erogare corsi in lingua straniera a patto di non marginalizzare la lingua italiana. Gran parte della stampa, invece, ha presentato la notizia come una vittoria del Politecnico. Tutt’altro: si tratta di una forte battuta d’arresto per la politica linguistica dell’ateneo meneghino.

Tutta colpa di un avverbio (“anche”, che non vuol dire “esclusivamente”) male interpretato[1]. La Corte ha stabilito chiaramente che non è ammissibile che una università pubblica eroghi esclusivamente corsi in lingua straniera, mentre è possibile che alcuni corsi (ma non tutti) siano esclusivamente in lingua straniera, però a patto che esista un equivalente in lingua italiana. Insomma il Politecnico può erogare alcuni corsi e insegnamenti in inglese, ma non tutti, e certamente nemmeno una percentuale prossima al 100%.

C’è anche chi vuole interpretare la sentenza della Corte come un atto di protezionismo linguistico, una prova di nazionalismo e di mancanza di apertura al mondo. È vero invece il contrario. Anzitutto la Corte ammette la legittimità di offrire corsi e insegnamenti in più lingue, oltre all’italiano. Ma al di là di questo è opportuno chiarire tre punti centrali di questa faccenda. Il primo: non è vero che l’inglese sia l’unica lingua nella quale si fa scienza. Secondo: l’insegnamento in inglese tende ad abbassare la qualità della didattica. Terzo: un insegnamento esclusivamente in inglese non basta per attirare e trattenere studenti internazionali.

Atteniamoci ai dati, per l’uno e per l’altro argomento. Ad esempio, una ricerca condotta nel 2014 in Gran Bretagna su 75.513 documenti scientifici pubblicati nell’area della conservazione della biodiversità e pubblicata nel dicembre 2016 da Amano, González-Varo e Sutherland, mostra che quasi il 36% della letteratura di riferimento non era pubblicata in inglese. Un’altra ricerca pubblicata nel 2007 da Hamel mostra che nel 2005 in Brasile si pubblicavano 5.986 riviste scientifiche, ma che di queste solo 17 (avete letto bene, 17) erano incluse nel repertorio di riviste scientifiche “Web of Science” pubblicato dalla casa editrice Thompson Reuters. Questo repertorio è utilizzato dalle agenzie per la valutazione della qualità della ricerca scientifica in diversi paesi, fra cui l’ANVUR italiana, per valutare la qualità delle pubblicazioni sulla base di indicatori citazionali. Si tratta di una banca dati parziale e anglo-centrica, gravemente distorta a favore delle pubblicazioni scientifiche in lingua inglese. Scambiando il mondo della ricerca con il mondo rappresentato dal “Web of Science” si finisce per avere una visione distorta dell’uso delle lingue nella comunicazione scientifica. Questo è un primo elemento che serve a smentire il bisogno di insegnare esclusivamente in inglese; bisogno che viene giustificato sull’assunto errato che nella letteratura scientifica si usi solo questa lingua. I dati, come visto, raccontano una realtà diversa.

Il secondo argomento è forse ancora più pertinente e decisivo. Alcuni sostengono che insegnare in inglese aiuta i ragazzi a prepararsi al “mercato del lavoro internazionale”, concetto di per sé fumoso visto che ogni mercato del lavoro, con l’eccezione delle organizzazioni internazionali, è soggetto a un diritto e a delle prassi nazionali. Ma la domanda principale è se effettivamente un insegnamento in inglese favorisce l’ottenimento di questo fine. È lecito dubitarne. Già nel 2011 la Conferenza dei Rettori delle università tedesche, in una risoluzione che ha avuto ampia diffusione, faceva notare che l’insegnamento erogato in inglese da professori germanofoni a studenti per lo più di lingua madre tedesca rischiava di fare abbassare la qualità della trasmissione del sapere. Studi recenti tendono a fornire nuove conferme empiriche in questo senso. Ad esempio, in uno studio effettuato da Reihofer su un totale di 139 studenti universitari austriaci con buone competenze in inglese gli studenti hanno seguito un insegnamento in inglese impartito da un professore italiano che usava l’inglese come lingua straniera (peraltro ad alto livello). La comprensione del contenuto della lezione si è rivelata qualitativamente migliore attraverso l’insegnamento tradotto in tedesco da un interprete professionista, rispetto alla comprensione raggiunta ascoltando direttamente l’originale in inglese. A maggior ragione un insegnamento impartito direttamente in tedesco da un insegnante madrelingua ha un’efficacia maggiore in termini comunicativi su un pubblico germanofono. Alla fine quello che conta più nel mercato del lavoro sono le competenze tecniche acquisite dallo studente e queste sono meglio acquisite attraverso la lingua materna.

Resta un ultimo argomento a favore dell’insegnamento veicolare in lingua inglese: attirare un maggior numero di studenti stranieri. Attirare studenti stranieri è diventato uno degli obiettivi principali di molte università europee, per certi versi una vera e propria ossessione. In parte questo dovrebbe aiutare a contrastare il calo di iscritti dovuto al declino demografico europeo e a raccogliere maggiori introiti, ma la ragione principale della corsa agli studenti internazionali è un’altra: salire in fretta nelle graduatorie internazionali delle università. Una moda perniciosa. Un’analisi comparata commissionata dal ministero dell’istruzione norvegese mostra che le graduatorie internazionali dell’università (che possono includere il numero di studenti stranieri come indicatore di successo) sono fondate su criteri imprecisi e arbitrari, e sono inutili a fornire una guida ai decisori pubblici. Intorno alle graduatorie internazionali si sta sviluppando una vera e propria industria, con tanto di consulenti che arrivano a chiedere fino a € 30.000 per aiutare le università su come salire rapidamente nelle classifiche. Certi atenei finiscono addirittura per pagare intermediari per procacciarsi studenti dall’Asia, e in particolare da India e Pakistan, per gonfiare il numero di studenti stranieri nei loro corsi. Non si tratta quindi di “attirare talento”, come spesso si sente dire; un’università mediocre resterà tale anche se offre corsi in inglese. Si tratta molto più prosaicamente di trovare scorciatoie per guadagnare facilmente posizioni nelle graduatorie. Con esiti, va detto, che possono essere controproducenti e deludenti. In Olanda, secondo i dati ufficiali del ministero dell’istruzione, solo il 27% degli studenti internazionali resta effettivamente a lavorare nei Paesi Bassi dopo aver ottenuto un diploma in inglese in quel paese, mentre il 70% dichiara che avrebbe voluto restarci, ma ha rinunciato. Una delle ragioni che scoraggiano gli studenti internazionali a restare in Olanda è la mancanza di competenze in olandese. Aver studiato due anni o tre anni solo in inglese non ha certamente favorito lo sviluppo di ottime competenze nella lingua locale e questo si riflette negativamente sulla capacità di un paese di trattenere (e non solo attirare) studenti stranieri. Il fine infatti dovrebbe essere questo: attirare e trattenere nel tessuto produttivo studenti internazionali. E invece nell’Europa continentale, dove le rette universitarie sono solitamente molto più basse che nei paesi anglofoni, gli atenei formano studenti internazionali grazie al contributo pubblico, ma poi li si lasciano andare via a far valere la propria formazione altrove (in particolare nei paesi anglofoni), e questo anche perché non si è insegnato loro la lingua locale a un buon livello. Un’offerta formativa solo in inglese scoraggia questo scopo; meglio quindi indirizzarsi verso programmi per studenti internazionali nei quali si faccia anche ampio uso della lingua italiana, in modo da dare un incentivo ad imparare e praticare l’italiano scientifico prima della laurea. La sentenza della Corte costituzionale va salutata quindi con favore perché essa è un invito alle università a offrire una formazione non solo di qualità, ma anche plurilingue.

 

Note:


[1]Scrive la suprema Corte: “La disposizione censurata, nell’indicare i vincoli e criteri direttivi che le università devono osservare in sede di modifica dei propri statuti, prevede, in particolare, che il rafforzamento dell’internazionalizzazione degli atenei possa avvenire «anche» attraverso l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera.

L’obiettivo dell’internazionalizzazione – che la disposizione de qua legittimamente intende perseguire, consentendo agli atenei di incrementare la propria vocazione internazionale, tanto proponendo agli studenti una offerta formativa alternativa, quanto attirando discenti dall’estero – deve essere soddisfatto, tuttavia, senza pregiudicare i principî costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento. L’autonomia universitaria riconosciuta dall’art. 33 Cost., infatti, deve pur sempre svilupparsi «nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» e, prima ancora, dai diversi principî costituzionali che nell’ambito dell’istruzione vengono in rilievo.

Ove si interpretasse la disposizione oggetto del presente giudizio nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli interi corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, anche in settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda, si determinerebbe, senz’altro, un illegittimo sacrificio di tali principî”.

 


Bibliografia:

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