I nomi del padre

Molti utenti ci chiedono se “in lingua italiana” sia corretto dire babbo o papà. M.L. da Pontedera vuol anche sapere, nel caso che entrambi siano corretti, quale sia quello “usato per primo”, mentre M.M. da Genova si domanda quale sia preferibile e M.F. da Alba Adriatica chiede se sia vero che papà è un francesismo. S. M. di Ladispoli vuole sapere perché se in Toscana si usa babbo, altrove invece si dice papà e da dove questa parola sia “venuta”.

Risposta

Accanto a padre, voce solo denotativa che indica "uomo che ha generato un figlio, considerato rispetto a quest'ultimo" (GRADIT), l'italiano comune attuale dispone di due forme familiari affettive usate soprattutto come allocutivi: babbo e papà.

Le due voci si sono affermate in epoche diverse e con percorsi differenti, "affrancandosi" dal panorama delle varietà locali sottostanti in cui ancora nella prima metà del secolo scorso dominavano, sia al nord che al sud, derivati dal latino patrem contrastati da babbo diffuso in Sardegna, Toscana, Romagna, Umbria, Marche e Lazio settentrionale, oltre che da tata, in Lazio, Abruzzo, Puglia settentrionale e Campania, e atta in Puglia, Basilicata e Campania meridionale. Anche papà, benché a fianco di altri termini, era già diffuso in Piemonte, lungo la valle del Po, in Veneto, a Roma, in Umbria e nelle Marche (cfr. AIS, c. 5 I vol.).

Sia papà che babbo (come anche il meridionale tata e mamma o mammà) sono forme tipiche del primissimo linguaggio infantile, costituite dalla ripetizione di una sillaba, perlopiù formata dalla vocale a e da una consonante bilabiale (p, b, m), i suoni più facili da produrre per i bambini. Mentre babbo è una forma "autoctona", papà è effettivamente un francesismo, benché di "vecchia data", tanto che se ne trova testimonianza già nel XVIII secolo per il veneziano (cfr P. Zolli, L'influsso francese sul veneziano del XVIII secolo) e, nella variante pappà, appare già usato nel XVI secolo da un autore toscano, Pietro Aretino, in un dialogo dei suoi Ragionamenti, in libera alternanza con babbo: "Chi è la vostra figlia? Pappà, babbino, babbetto, non sono io il vostro cucco?".

La storia del progressivo affermarsi delle due forme può essere letta attraverso le testimonianze lessicografiche. Babbo compare sostanzialmente invariato dalla prima fino alla quarta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, dove si chiarisce che “dicesi solo da' piccoli fanciulli, e ancora balbuzienti” e si citano il volgarizzamento Libro della sanità del corpo di Aldobrandino da Siena (“Sì come è a dire, mamma, pappo, babbo, bombo”) che rimanda al linguaggio infantile, e il XXXIII canto dell'Inferno (“Che non è impresa da pigliare a gabbo Descriver fondo a tutto l'Universo, Né da lingua, che chiami mamma, o babbo”). La "V Crusca" è più esplicita: “è voce, per lo più, de' fanciulli e, scrivendo, dello stile familiare e giocoso. Raddoppiamento della sillaba ba ch'è uno de' primi suoni che con facilità articoli il fanciullo, e che ha analogia in quasi tutte le lingue”.

Nessuna delle edizioni del Vocabolario degli Accademici registra papà o pappà; né lo troviamo nelle schede preparatorie alla lettera P della V edizione (pubblicata dal 1863 al 1923, fino alla lettera O). La voce aveva comunque già iniziato a penetrare almeno in certa lessicografia: nella seconda edizione del Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana di Francesco d’Alberti Di Villanuova (1825) troviamo il lemma PAPÀ definito "lo stesso che Babbo" e a BABBO leggiamo:

Padre; e dicesi solo da' piccoli fanciulli, e ancor balbuzienti, e da coloro che con essi favellano. Osservisi che in tutte le lingue il Vocabolario infantile delle robe necessarie è di parole dissillabe, e ripetuta la prima sillaba per facilità di tenere a mente. Così Papà, Mamma, Pappa, Poppa, Bombo, Dindo, Cuccio [sic], Tato, Chicca.

Da notare che l'edizione precedente, del 1797, non registrava papà, né questo compariva nell'enumerazione delle voci infantili a chiusura del lemma babbo.
Papà non appare neanche tra le voci a lemma nell'altro grande monumento della lessicografia ottocentesca, il Tommaseo-Bellini (1861-1879); appare invece nella trattazione di babbo il motivo della sua estromissione:

Nome che al padre dànno in Toscana, non solo i bambini, ma familiarm. tutti; Padre essendo nel ling. fam. parola troppo grave, e Papà suonando francese oggimai.

Troviamo censura del termine ancor più decisa nel Lessico della corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlìa (1877), dove lo si definiva "voce francese ricevuta in cambio della più cara ed affettuosa di Babbo"; alla voce mammà si riprendeva l'argomento:

[...] Questa voce e l'altra Pappà e Papà che abbiamo prese ai Francesi, in iscambio delle amorevoli Babbo e Mamma ora com'ora pur troppo in tutta Italia, salvo che in Toscana, sono sulla bocca del ceto signorile. Nel popolino poi c'è varietà di locuzione; così in Piemonte dicono Pare e Mare [...], in Lombardia Mama, nel Veneto, nel Napoletano e nella Campagna Romana Mamma la madre, e Tata il padre. In Toscana senza distinzione di classi, salvo l'eccezione su indicata, da tutti dicesi Babbo e Mamma.

Nella successiva edizione del 1890, riveduta e con molte giunte, in cui l'italianità del titolo, oltre che corrotta, suona anche infima, si aggiunge una coda polemica: "e certi nostri compaesani, perché passeggian pe' sette colli, credono di far bene a smetter quella per dire Pappà e Mammà! Belle mi' nerbate !" Alla voce mammà si inserisce poi, laddove si cita l'uso toscano di babbo, oltre all'osservazione che è diffuso anche in Umbria, una nota che così recita: "Così fu scritto nella prima e seconda edizione di questo Lessico; ma ora pur troppo debbo dire che pure in Firenze da certuni, per mostrarsi gente di alto affare, si vuole che i lor figliuoli chiamino papà e mammà il babbo e la mamma. Poveri grulli!"

Non tutti però la pensavano allo stesso modo: nella "nuova edizione con duemila aggiunte per cura di Giuseppe Frizzi" del Vocabolario dei sinonimi della lingua italiana di Pietro Fanfani (1865), al paragrafo intitolato BABBO, PADRE, PAPÀ si legge:

Padre è la voce vera e nobile, la quale si riferisce a tutti i padri in generale; e si trasporta a significare paternità spirituale, e comecchessia Colui che primo ha dato origine a una cosa. – Babbo è voce da fanciulli, ed è usata anche dagli adulti a significazione di affetto, e suol dirsi parlando del proprio padre o del padre di colui a cui parliamo. – La voce Papà è una leziosaggine francese che suona nelle bocche di quegli sciocchi, i quali si pensano di mostrarsi più compiti scimmiottando gli stranieri.

Si aggiunge il commento del curatore:

Ragion vuole, però, che si noti che Papà è voce comunissima anche nel popolo in molte parti d'Italia; e che, mentre a’ Toscani suona affettato il Papà, a’ non Toscani suona tale il Babbo. – So che molti mi grideranno la croce addosso per questa affermazione; ma ciò non toglie ch’io affermi la verità; e contro la verità non c' è pedanteria che tenga. E poi, chi può dar della straniera a una voce comune a tante lingue e a tanti dialetti? G. F.

All'inizio del '900, per quanto ancora avversato da alcuni – nel Vocabolario italiano della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani alla sua terza edizione (1903) si nota che babbo è la voce dei bambini e "s'intende di quelli del popolo, ché per quelli de' signori c'è la voce Papà", trasferendo la questione sul piano sociale come già aveva fatto Arlìa – papà è accolto e sostenuto da Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno (1905):

mammà e papà Non piacciono ad alcuni puristi, e sono ritenuti per gallicismi. Storicamente ciò è sicuro; ma queste voci hanno anche tal valore onomatopeico da diventare accettabili ovunque. Il Pascoli in una sua nota in Fior da fiore, scrive: "Papà: si vuole che non sia italiano papà! Vorrà dire che i bimbi coi loro labbruzzi fanno, senza che nessuno abbia loro insegnato, dei gallicismi! E si dice altrettanto di mammà. O bambini: dite papà e mammà quanto vi pare e piace: sono parole della lingua universale".

Anche Giulio Cappuccini nel suo Vocabolario della lingua italiana (1916 e 1935) registra il termine glossandolo come dialettale e aggiungendo che è "in fondo un francesismo per Babbo", notazione che, nell'edizione del 1945 a cura di Bruno Migliorini, scomparsa la glossa dialettale, diverrà "voce sempre più diffusa, d'origine francese per Babbo".
Nella seconda metà del Novecento Aldo Gabrielli, nel Dizionario linguistico moderno: guida pratica per scrivere e parlar bene (1956), alla voce babbo rimanda per la trattazione a papà, dove si legge:

è comunemente considerato francesismo, come derivato cioè dal francese papa (che si lègge appunto "papà"); ma è piuttòsto vóce onomatopèica infantile, che ripète il balbettìo puro e sémplice dei bimbi di tutto il móndo. I puristi sostèngono che si dèbba dir babbo (usato peraltro sólo in alcune regióni), la quale è pur éssa vóce onomatopèica infantile: óra nói pensiamo che non ci sia da segnar barrière nella vóce istintiva dei bimbi, sia éssa pa-pa o ba-ba, e non prometteremo "belle nerbate" [...] a coloro che dicono papà invece di babbo.

E chiude questo "discorsetto" con le parole del Pascoli già citate da Panzini. Nella IX edizione dello ZINGARELLI (1965) babbo si dice che è usato "specialmente in Toscana (altrove papà)" e specularmente per papà si rileva solo che è "usato fuori di Toscana spec. come appellativo". E così sostanzialmente è nella lessicografia dei giorni nostri. Ormai il "francesismo", sostenuto anche dal suo configurarsi come un "balbettamento" infantile per dire padre, è la scelta più condivisa, mentre babbo si configura come un regionalismo.

Per valutare la situazione odierna del parlato comune di questo secolo abbiamo a disposizione uno strumento di recentissima pubblicazione, la banca dati LinCi "un progetto di ricerca che mira, attraverso le dichiarazioni dei parlanti, a testimoniare l'italiano comune corrente informale della nostra contemporaneità" tramite inchieste svolte in 31 città italiane. Una delle domande, sottoposte a 12 informatori per città, differenziati in base a sesso, età e grado di istruzione, tende a indagare, tra l'altro, quale sia la voce usata tra babbo e papà. Benché l'indagine non copra tutto il territorio nazionale, da un lato conferma l'uso pressoché esclusivo di papà in Piemonte, a Milano, Genova e Verona, all'Aquila, Lecce e Catania; dall'altro si rivela particolarmente funzionale per stimare la situazione di aree in cui babbo è tradizionale o si trova a collidere con papà: la Sardegna, il Lazio, Modena e, naturalmente, la Toscana.
Della situazione della Sardegna troviamo una sintesi di Cristina Lavinio nel suo contributo in La lingua delle città. Raccolta di studi:

è emersa una presenza significativa di papà a Cagliari (dove gli informatori si suddividono paritariamente fra papà e babbo) e a Sassari (dove comunque babbo prevale, anche se citato da alcuni informatori in alternanza con papà [...]). Papà è però assente a Nuoro, dove tutti gli informatori dicono solo babbo, ed è poco presente anche a Oristano, dove solo tre informatori dicono di usare anche papà, due di loro alternandolo a babbo [...]. (p.166)

Nella stessa raccolta il profilo laziale è tracciato da Paolo D'Achille:

[...] la seconda forma [papà] è d’uso generale a Roma, a Rieti [...] e a Latina [...]. A Viterbo, invece, papà si divide equamente le risposte con babbo, indicato da 6 informatori [...]. Se pensiamo che babbo è invece la risposta data da tutti gli intervistati di Bolsena [inchiesta non “ufficiale” condotta col questionario LinCi], evidentemente l’isoglossa che separa le due voci attraversa oggi la Tuscia. (p. 243)

Domenico Proietti poi, ancora in La lingua delle città, illustra la situazione di Modena, città emiliana che risente della contigua area romagnola in cui babbo è tradizionale, in cui è testimoniata la netta prevalenza di papà rispetto a babbo che è usato, a fianco di papà, dagli informatori più anziani.

Il panorama LinCi quindi ci mostra una progressiva perdita di terreno di babbo rispetto a papà che ormai appare affermato sia al sud (occorre ricordare che in molte zone del meridione babbo vale 'stupido'), sia al nord. Resiste decisamente l'area toscana che mostra compattamente babbo, eventualmente affiancato, peraltro nell'uso di pochissimi informatori, da pappà a Lucca e da pa' in area occidentale.

Caso toscano a parte, papà risulta la forma familiare per 'padre' più usata in lingua: ne sono testimonianza alcune espressioni ormai molto diffuse come figlio di papà, aspirante papà, neopapà, festa del papà, seguire le orme di papà, le cui alternative, per quanto possibili (tranne nel primo caso), hanno una diffusione (almeno stando alla rete) decisamente più ridotta. In controtendenza è invece il rapporto tra babbo Natale  e papà Natale (11.900.000 a 11.100 occorrenze per le pagine in italiano il 15 dicembre scorso); anzi in alcuni casi, babbo Natale è Il Babbo per antonomasia:

Gli insegnanti di danza sono piccoletti con le orecchie a punta: niente meno che i folletti di Babbo Natale. […] Al Santa Claus Village di Rovaniemi, ufficialmente riconosciuto dalle autorità finlandesi, si potranno spedire le letterine (di carta, altro che iPad), farsi la foto ricordo con il Babbo e godersi la neve, che puntuale scenderà ogni ora. (E. Manna, Feste in arrivo a passo di danza, Repubblica.it, 6.12.2013)

Ciò è ancora più evidente nello spot di una notissima crema spalmabile in cui il personaggio è costantemente indicato come Babbo.

Qualcuno ha preso la *** dal villaggio di Babbo.
Chi può essere stato? Segui le indagini di Elfo Spalmino e aiutalo a riportare l'entusiasmo nel villaggio di Babbo!

Non è detto però che ciò sia da intendersi come un sintomo di vitalità del termine: è più probabile che sia una sorta di specializzazione, un insolito percorso dal nome comune al nome proprio... almeno fuori di Toscana.


Nota bibliografica:

  • D’Achille P., I dati LinCi nelle città del Lazio tra italiano standard, italiano de Roma e affioramenti dialettali, in La lingua delle città. Raccolta di studi, a cura di A. Nesi, Firenze, Cesati, 2013, pp. 209-246
  • Jaberg K., Jud J., Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz (AIS), Zofingen, Ringier & Co., 1928-1940
  • Lavinio C., LinCi e oltre. la Sardegna in diatopia, in La lingua delle città. Raccolta di studi, cit., pp.165-180
  • Nesi A., Poggi Salani T., La lingua delle città - LinCi - La banca dati, Firenze, Accademia della Crusca, 2013
  • Proietti D., L’italiano di Modena dai dati LinCi, in La lingua delle città. Raccolta di studi, cit., pp. 111-136
  • Zolli P., L'influsso francese sul veneziano del XVIII secolo, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1971

 

A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca


 

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