Il differenziale mannaro: lo spread e altri “mostri” della finanza

Sergio Pozzato da Vicenza, Andrea Iannetti da Roma, Marco Muzzi dal Portogallo, Rosanna Selvi dalla provincia di Firenze, ci propongono alcune voci inglesi in uso nel linguaggio della finanza (spread, default, swap, bond...)  e ci domandano se si debbano senz’altro accogliere o se invece non si possa intervenire con la proposta di alternative sinonimiche nella nostra lingua.

Risposta


Il differenziale mannaro: lo spread e altri “mostri” della finanza
 

Ho colto al volo l’espressione “differenziale mannaro” durante il TG3 delle diciannove il 27 gennaio scorso e mi è sembrato colpisse nel segno: condensa l’ansia accumulata in questi ultimi mesi dagli italiani intorno al proprio futuro e insieme rivela anche la tendenza alla drammatizzazione, che alimenta quest’ansia, di alcuni giornalisti tramite l’impiego di forme straniere in luogo di altre più conosciute o almeno riconoscibili. A partire dall’estate 2011 dai media ci è piovuta addosso una pioggia di termini inusuali per molti di noi: spread, rating, default, swap (anche nella combinazione credit default swap), outlook, downgrade… Sono voci doppiamente estranee in quanto evidentemente inglesi, o meglio angloamericane, e in quanto indicano concetti legati alla finanza internazionale, un mondo di cui conosciamo l’esistenza, ma che fino a non molto tempo fa sembrava una sorta di Iperuranio irraggiungibile che, tutto sommato, non ci riguardava più di tanto. Ora quel mondo è sceso tra noi e ci assale a colpi di spread.

Diciamo subito che spread in inglese significa anche ‘the difference between two rates or prices’ ovvero ‘la differenza tra due misure o prezzi’; in particolare in ambito finanziario si riferisce alla differenza tra il rendimento di titoli sovrani, cioè buoni del tesoro nazionali a lungo termine e, per quel che ci riguarda, indica lo scarto tra il rendimento dei nostri BTP ‘buoni pluriennali del tesoro’ e quello dei corrispondenti BUND tedeschi.
 

Che l’effetto dei media in Italia sia davvero ansiogeno lo si deduce da un dato quantitativo: una ricerca su Google (1 febbraio 2012) della sequenza le spread in lingua francese ha dato come risultato 265.000 occorrenze; analogo risultato si ottiene cercando el spread in lingua spagnola (272.000); mentre digitando lo spread in italiano la cifra sale a 1.730.000. Eppure sia la stampa francese sia quella spagnola hanno usato la forma, benché con maggior moderazione rispetto alla stampa italiana e con qualche differenza: in Francia spread compare anche nei titoli benché tra virgolette e, raramente, affiancato nel corpo dell’articolo dall’equivalente écart de rendement (Le "spread" franco-allemand s'envole encore malgré les plans de rigueur,9.9.2011 e L'autre notation des marchés : le "spread" franco-allemand, entrambi in “Le Monde”, 22.11.2011, C’est le "spread" qui compte !, “Atlantico”, 14.11.2011); in Spagna invece lo si trova soprattutto all’interno degli articoli in corsivo e con traduzione tra parentesi, mentre nei titoli appare spesso il corrispettivo in lingua spagnola prima de riesgo: "No deberíamos aceptar tener que pagar un spread [prima de riesgo] del orden de los 200 puntos básicos durante mucho tiempo" (Ordóñez cree que si no baja la prima de riesgo la banca cortará el crédito,“El Pais” 24.05.2011) e ancora "En nuestra opinión, este es más un caso de ponerse al día con los spreads (diferenciales con respecto a la deuda de referencia que es Alemania)" (Citi alienta las dudas y augura más recortes en la eurozona, “El Paìs Economìa” 16.1.2012). E qui da noi? Solo un dato tratto dal sito Primapagina.com: 79 articoli parlano di spread tra venerdì 27 e domenica 29 gennaio 2012.
 

Ma non di solo spread vive l’angoscia degli italiani:

 

L'outlook di Washington diventa però negativo per via dell'indebitamento e dei costi per gli interessi. L'agenzia di rating ha confermato anche la nota di merito sul debito austriaco e abbassato ad "A1" quella sui bond sloveni. […] Moody's mantiene un giudizio "AAA" sugli Stati Uniti con outlook negativo, ma è pronto a rivedere il rating se non verranno fatti ulteriori passi per la riduzione del deficit. […]"I fondamentali strutturali, la stabilità politica e le prospettive economiche post-crisi sostengono un rating AAA", spiega Moody's a proposito degli Stati Uniti. Tuttavia, l'outlook è stato cambiato in negativo nell'agosto 2011 […]". Gli analisti valutano positivamente l'approvazione del Budget control act, tuttavia, "senza ulteriori misure di riduzione del deficit, il rating potrebbe essere messo sotto osservazione per il downgrade nel corso del prossimo anno o dei prossimi due". A breve termine l'agenzia di rating non vede, invece, rischi particolari per gli Usa: "[…] Questo è stato dimostrato nel corso del 2011, con i rendimenti dei treasury scesi vicino ai minimi di sempre". (Gli Usa conservano la tripla A di Moody's , “Repubblica” 23.12.2011, neretto nostro)

 

Del resto così parla Mario Draghi:

 

''Stiamo facendo del nostro meglio - ha aggiunto - per evitare un 'credit crunch' (o restrizione del credito, ndr) che potrebbe generarsi dalla mancanza di liquidità. Non sappiamo quanti Bond sovrani compreranno le banche" in seguito alla 'facilty' di liquidità della Bce […]. Poi l'ex governatore di Bankitalia lancia un messaggio tranquillizzante: assicura che l'autorità bancaria europea (Eba), nel prossimo stress test ''non ripeterà l'esercizio con il 'back to market’'' e che quindi che ''le banche potranno procedere alla ricapitalizzazione'', giudicata ''inevitabile'', ma ''senza l'incubo dello stress test tra 4-5 o 6 mesi''. (Draghi: "Prospettive economia incerte", “Repubblica” 19.12.2011)

 

È comprensibile che, oltre a informazioni sul significato di queste voci - per le quali rimandiamo a strumenti divulgativi offerti in rete dai grandi quotidiani come il Dizionario di economia in La stampa.it o il Glossarioin Repubblica.it Economia&Finanza, oppure a un’opera specifica indirizzata agli addetti ai lavori come il Nuovissimo dizionario di banca, borsa e finanza, a cura di Gian Carlo Loraschi - ci venga richiesto un parere “qualificato” sull’opportunità di usare queste forme, sul loro rapporto con la nostra lingua, sulla possibilità e legittimità di un intervento normativo volto alla “imposizione” di sinonimi italiani, se esistono, o alla coniazione di traduzioni, come si procede in altri paesi.
 

Crediamo che in primo luogo si debba valutare l’entità del fenomeno collocandolo nella giusta prospettiva, cercando di liberarlo dallo stress emotivo del momento contingente, causato anche dall’alta frequenza con cui i termini vengono proposti dai media. In realtà, prendendo come test una breve lista di termini molto ricorrenti in questi ultimi mesi (spread, default, bond, rating, swap, downgrade, outlook) scopriamo che, a parte downgrade ‘ribasso del valore dei titoli quotati in borsa’ e outlook ‘previsione sull'andamento di un gruppo industriale’, datati rispettivamente 2000 e 2003 in GRADIT (ma in Sabatini - Coletti 2008 si retrodata outlook al 1986 nel valore di ‘relazione presentata da un ente specializzato sullo stato dell’economia di un paese... ’), sono voci in uso in testi italiani già negli ultimi decenni del Novecento. Il più recente sembra essere default che fa il suo ingresso nel linguaggio informatico nel 1991, secondo il GRADIT, e che compare già in un articolo sul “Corriere della Sera” del 29 ottobre 1995 con il valore di ‘condizione di insolvenza di una banca o di un paese nei confronti di obbligazioni o debiti’ (così è registrato nel Vocabolario Treccani). La forma spread è presente già in DISC 1997 e GRADIT 2000, i quali la riconducono al 1991 come ‘scarto fra due tassi d'interesse’, mentre rating viene fatto risalire al 1989, bond al 1985 e swap, il più “anziano” della lista, al 1979. Si tratta quindi di voci che da oltre un decennio, in alcuni casi da più di due, mostrano una frequenza sufficientemente rilevante da essere registrate dai dizionari, pur ricondotte al linguaggio settoriale della finanza.
 

Una seconda osservazione riguarda il settore d’impiego di questi termini e le realtà coinvolte negli scambi che lo caratterizzano. Prendiamo ad esempio il significato di swap, il termine più consolidato negli anni (si trova citato tra l’altro anche nel Decreto legislativo 24.2.1998, n. 58 Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria): secondo GRADIT swap ha come primo valore quello di ‘credito reciproco a breve termine […] fra le banche centrali dei paesi aderenti al Fondo Monetario Internazionale’. È evidente che i protagonisti di questa relazione sono enti o persone dotati di alte competenze in campo finanziario, che appartengono a una comunità sovranazionale, parlano cioè un linguaggio tecnico e nel contempo internazionale, ovvero, come è noto, l’angloamericano, la lingua della maggiore potenza economica del XX secolo. Il settore dell’alta finanza si è sviluppato abbastanza recentemente e non ha avuto modo, in ogni singola nazione, di creare quelle radici che avrebbero consentito il formarsi di un vocabolario specifico per ogni lingua: “tutti gli elementi che compongono il sistema finanziario sono variati sostanzialmente in quest’ultimo decennio [1990-2000]. L’attuale situazione contiene caratteri dinamici tali da porre la sfida di prevedere le direzioni e le intensità del loro sviluppo: esso ha già raggiunto orizzonti mondiali, tali da richiedere conoscenze ben oltre i confini nazionali, ha assimilato e creato innovazioni sia tecniche, nelle comunicazioni e registrazioni, sia finanziarie nei contratti e nei programmi...” (Francesco Parrillo, Presentazione in Nuovissimo dizionario cit., p.11). La stessa datazione delle voci che abbiamo visto è riconducibile alla realtà della “finanza strutturata, la novità maturata negli ultimi 20 anni negli Stati Uniti che si è impiantata in Europa a partire dagli anni 90” (Ibidem, p.12). Le diverse nazioni europee singolarmente, e l’Italia in particolare, non hanno avuto né il tempo né il peso economico per contrapporre alternative nel settore della finanza e nella legislazione che lo regola. Anche l’ambiente giuridico si è posto il problema della massiccia presenza di forme angloamericane in materia di diritto finanziario : “la ragione per cui nel sottosettore del diritto bancario e finanziario l’italiano giuridico ha adottato una terminologia inglese non è l’esterofilia del legislatore, è che nella lingua italiana mancano le parole per designare certi oggetti giuridici di nuovo conio. I francesi che hanno adottato la strategia opposta e traducono tutto, essendo vincolati a farlo dalla c.d. Loi Turbon, non si trovano in posizione diversa. Le parole che si leggono nei testi ufficiali francesi possono suonare familiari al francofono però quando si tratta di 'negocier des indices' il senso dell’operazione è quello stabilito da una prassi internazionale che parla inglese” (Antonio Gambaro, L’italiano giuridico che cambia - Il punto di vista del privatista, relazione presentata al convegno L’italiano giuridico che cambia, Firenze, Accademia della Crusca, 1.10.2010, atti in corso di stampa).

La stessa Banca d’Italia forniva, in appendice alla Relazione Annuale 2006 (3.5.2007), un Glossario di ben 36 pagine in cui si spiegano non solo i termini angloamericani presenti nel testo (bid-ask spread tradotto in differenziale lettera-denaro, bridge loans, buy-back, CDO collateralized debt obligation, CDS credit default swap, ecc.), ma anche espressioni italiane che evidentemente potevano risultare di dubbia interpretazione (comovimentazione, concambio, drenaggio fiscale, disavanzo corrente, e molte altre).
 

In sostanza la questione del contributo italiano alla conversazione della finanza sovranazionale, in termini di apporto lessicale (cosa che si è realizzata in larga parte durante i secoli XVI e XVII quando il nostro paese era il motore dell’innovazione in ambito finanziario) deve inserirsi nel più vasto quadro del dibattito sul multilinguismo all’interno dell’Unione Europea.

Attualmente,  se nella comunicazione “normale” o in ambiti specialistici di lunga tradizione nel nostro Paese, di fronte all’uso di termini importati da altre lingue e in particolare dall’inglese o dall’angloamericano, è già possibile un intervento propositivo (più che normativo) da parte della comunità intellettuale, tale intervento è di più difficile attuazione nel campo dell’alta finanza. Sicuramente più facile sarebbe agire nel senso della chiarificazione dei termini quando questi in qualche modo ricadono sui cittadini, chiarificazione spesso necessaria e auspicabile anche quando i termini o le espressioni appartengono a pieno titolo alla nostra lingua, almeno dal punto di vista formale.
 

Un’ultima nota. In queste ultime ore e non in conseguenza di un intervento accademico, ma per una maggiore credibilità internazionale riconosciuta al nostro Paese, è proprio il mostro-spread ad essere ridimensionato: da terribile mister spread sta tornando a rivestire i panni del più innocuo dottor differenziale, anche nel linguaggio dei TG nazionali.

 

Per approfondimenti:

 

  • Claudio Giovanardi, Riccardo Gualdo, Alessandra Coco , Inglese-italiano 1 a 1 Tradurre o non tradurre le parole inglesi? ,San Cesario di Lecce, Manni, 20082
  • Massimo Luca Fanfani, Sugli anglicismi nell’italiano contemporaneo (I-XIV), “Lingua Nostra” voll. LII (1991)- LVII (1996)
  • Gian Carlo Loraschi (a cura di), Nuovissimo dizionario di banca, borsa e finanza, Milano, Istituto per l’enciclopedia della banca e della borsa, 2005
  • Francesca Rosati,Anglicismi nel lessico economico e finanziario italiano, Roma, Aracne, 2004
  • Alberto A. Sobrero, La lingua dell’economia, in Introduzione all’italiano contemporaneo, Bari, Laterza, 1993
  • Anna Vera Sullam Calimani (a cura di), Italiano e inglese a confronto, Firenze, Cesati, 2003

 

A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza linguistica

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7 febbraio 2012


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