Bevvi, bevei o bevetti?

Diversi lettori e lettrici ci chiedono se è possibile usare intercambiabilmente le forme bevvi / bevei / bevetti, e forme analoghe alla terza persona singolare e plurale, del passato remoto di bere.

Risposta

Il tema della sovrabbondanza di forme per esprimere lo stesso significato nei paradigmi verbali dell’italiano è già stato affrontato nella risposta sui participi passati perso / perduto e visto / veduto (14 ottobre 2016).

Nel caso delle forme di prima e terza persona singolare e terza persona plurale del passato remoto, per alcuni verbi, tra cui bere, la sovrabbondanza è estrema, dato che si offre la scelta tra tre forme invece che solo due.

Può essere utile ricostruire come si sia giunti a un tale stato di cose. È noto che per i verbi della seconda coniugazione si sono avute notevoli ristrutturazioni nell’espressione del perfetto nel passaggio dal latino alle lingue romanze, e già in latino tardo (un’eccellente illustrazione di tutta la materia è offerta da Marcello Barbato, La fabbrica analogica. Note sui perfetti deboli di seconda classe nelle lingue romanze, in “Romance Philology” 66 (Fall 2012), 397-422). A forme cosiddette “forti”, che sono frutto di una normale evoluzione fonetica, come bevvi < *bibui (già sostituzione del classico bibi), si sono affiancate forme cosiddette “deboli”, come bevetti e bevei, formate per effetto di processi analogici sulla cui esatta ricostruzione non c’è sempre pieno accordo tra gli studiosi che si sono occupati della questione.

Lo scenario più probabile sembra il seguente: le desinenze deboli -éi, -ésti, -é, -émmo, -éste, -érono sono frutto di analogia su forme regolarmente evolute come -ai, -asti ecc. per i verbi di prima coniugazione e -ii, -isti ecc. per i verbi di terza coniugazione. In questo modo la seconda coniugazione viene a dotarsi di un meccanismo di formazione del passato remoto “regolare” come le altre due.
La nascita di ulteriori desinenze deboli per prima e terza persona singolare e terza plurale, cioè -etti, -ette, -ettero, viene spiegata per effetto di analogia con le forme del passato remoto di stare, un verbo di altissima frequenza. Alla prima persona, il classico stetī è stato presto sostituito da *stetui, che ha dato regolarmente stetti; questa forma, nella quale la desinenza di prima persona è -i, e che etimologicamente andrebbe segmentata come stett-i, è stata rianalizzata come st-etti, sulla scorta di forme come st-o, st-a, ecc., e di qui si è venuta a creare nella coscienza dei parlanti una desinenza di prima persona singolare di passato remoto -etti, estesa poi ad altri verbi di seconda coniugazione sulla base di una analogia proporzionale come la seguente: stesti : stetti = bevesti : x – con la conseguenza che x corrisponderà a bevetti.

In questo modo un verbo come bere potenzialmente viene ad essere dotato di forme triple di passato remoto alla prima e terza singolare e alla terza plurale: bevvi / bevei / bevetti, bevve / bevé / bevette, bevvero / beverono / bevettero.

Tuttavia, va verificato in che misura le diverse forme siano usate. La ricerca non è banale, data la scarsa frequenza del passato remoto e anche del verbo bere nei testi scritti raccolti negli ampi corpora di cui disponiamo (e nei piccoli corpora di parlato: nessuna forma di passato remoto di bere è registrata nel LIP).
Un esame dei risultati forniti da Google N-gram viewer, che informa sugli usi nel corpus di libri in lingua italiana pubblicati dal 1500 al 2008 raccolto da Google Libri, mostra che le forme forti (bevvi ecc.) sono sempre più frequenti di quelle deboli, e che tra queste le forme in -etti ecc. sono più usate di quelle in -ei ecc., che sono scarsissimamente attestate (hanno qualche occorrenza tra il XVIII e la prima metà del XIX secolo). Questo risultato è coerente con quanto scoperto in diversi studi dedicati alla distribuzione delle due serie di desinenze deboli.

L’idea che le desinenze -ei e -etti (e le loro parallele nelle altre due persone) siano pienamente equivalenti e intercambiabili si è a mio avviso diffusa a partire dalle tavole di coniugazione presentate da grammatiche e dizionari, che per lo più elencano per il passato remoto della seconda coniugazione le forme temei o temetti ecc. con pari dignità. In realtà, l’esame della distribuzione delle desinenze delle due serie in testi di diverse epoche, condotto indipendentemente da Marcello Barbato per l’italiano antico e da Hans Werner Flamm (Dovei o dovetti?, “Lingua nostra” 48, 1987, pp. 20-25) e Anna M. Thornton (Overabundance (multiple forms realizing the same cell): a non-canonical phenomenon in Italian verb morphology, in Maiden, Martin, John Charles Smith, Maria Goldbach & Marc-Olivier Hinzelin (a cura di), Morphological Autonomy: Perspectives from Romance Inflectional Morphology, Oxford, Oxford University Press, 2011, pp. 358-381) per l’italiano contemporaneo, ha mostrato che si ha un evidente condizionamento fonologico, di carattere dissimilatorio, sulla scelta della desinenza: i verbi con radice terminante in /t/ evitano la serie -etti ecc., quelli con radice terminante in altre consonanti invece la prediligono.
Barbato ha elaborato dati sulle forme presenti nei testi del corpus TLIO risalenti al XIII secolo, verificando che alla terza persona i verbi con radice terminante in /t/ selezionano nel 98% dei casi la desinenza -e(o) e solo nel 2% dei casi -ette (2 forme su 110 totali); i verbi con radice terminante in /d/ hanno -e(o) nel 78% dei casi e -ette nel 22%; i restanti verbi hanno invece -ette nell’87% dei casi e -e(o) nel 13%.
Thornton ha elaborato dati sul corpus la Repubblica 1985-2000, trovando che i verbi con radice terminante in /t/ presentano desinenze prive di /tt/ in 1750 occorrenze (98,9% dei casi), e desinenze con /tt/ in sole 8 occorrenze, mentre i verbi con radice non terminante in /t/ hanno desinenze con /tt/ in 5375 occorrenze (99,9% dei casi!) e desinenze senza /tt/ in sole 19 occorrenze.
Flamm presenta dati molti analitici elaborati su testi letterari e giornalistici del XX secolo, e dati da un test somministrato per iscritto a 40 parlanti, su numerosi specifici verbi tra cui bere, per il quale riscontra solo le forme in -etti (3 occorrenze, tutte in testi di narrativa).
Il risultato di Flamm è coerente con il quadro globale verificato da Barbato e Thornton: un verbo come bere, la cui radice non termina in /t/, tra le due serie di desinenze deboli privilegerà quella con /tt/.

Forme come bevei ecc., tuttavia, sono occasionalmente attestate (per es. nell’inno di Mameli: “il sangue polacco / bevé col cosacco”, dove tuttavia entrano in gioco forti condizionamenti metrici); ciò è dovuto, a mio avviso, al fatto che quella grande parte di parlanti e scriventi dell’italiano per i quali il passato remoto non è forma nativa nell’uso orale, ma solo letteraria, e che quindi non ha acquisito spontaneamente la condizione fonologica sulla distribuzione delle due serie di desinenze che dà luogo alla polarizzazione nella distribuzione appena vista, che è propria di chi usa il passato remoto come forma nativa, si sente autorizzata a un uso intercambiabile delle due serie di desinenze sulla scorta del modello presentato dalle tavole di coniugazione contenute in molte grammatiche e dizionari.
In verità spesso le grammatiche osservano la preferenza d’uso che abbiamo documentato, ma nel testo; una consultazione affrettata delle sole tavole non permette invece di cogliere questo fenomeno. Per esempio, Giampaolo Salvi e Laura Vanelli (Nuova grammatica italiana, Bologna, il Mulino, 2004) nel testo scrivono che “alcuni verbi si flettono con entrambe le terminazioni in variazione libera […], la maggior parte dei verbi preferisce la terminazione in -etti [...], tranne quelli con la radice terminante in -t-, che  selezionano -ei […]”, ma nella tavola presentano entrambe le desinenze (p. 94).

Tra forme deboli come bevei e bevetti, dunque, la norma predilige quelle in -etti: ma le forme con desinenze in /tt/ sono comunque meno frequenti delle forme forti quali bevvi ecc.
A chi chiede se bevetti “è errore” bisogna rispondere ribadendo che il polimorfismo e la sovrabbondanza di forme, in particolare nella flessione del verbo, sono caratteristica peculiare della lingua italiana, che non accenna a scomparire nemmeno nell’epoca più recente. Nella sua Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni (Roma-Bari, Laterza, 2014) Tullio De Mauro, confrontando alcune caratteristiche dell’italiano standard di cinquant’anni fa con quello di oggi, scrive (p. 151): “La polimorfia morfologica sembra […] attenuarsi, ma non è scomparsa. L’italiano d’oggi eredita dal suo passato di lingua affidata prevalentemente all’uso scritto uno standard ricco di varianti parimenti accettabili”; tra le varianti ancora in uso, De Mauro elenca anche bevvero / beverono / bevettero (p. 150).
Come già osservato nella risposta sulle doppie forme di participi passati, chi preferirebbe la riduzione del ventaglio di scelte in favore di un’unica forma segue una linea manzoniana, mentre chi tollera o addirittura apprezza la sovrabbondanza di forme e la ricchezza di opzioni che la lingua italiana ancora oggi offre mostra una sensibilità piuttosto leopardiana – o demauriana.

 

Anna M. Thornton

 

22 gennaio 2019


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